Commentary on Political Economy

Saturday 12 December 2020

CORRIERE.IT EDITOR WARNS AGAINST ITALIAN AUTHORITARIANISM

 OPINIONI

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Quando il potere (centrale) è debole

Ogni giorno di più lo stato di emergenza prodotto dall’epidemia di Covid mette in luce il dato centrale della crisi italiana: la debolezza del comando politico e dei suoi apparati. Non è un caso. Proprio nella misura infatti in cui l’epidemia accresce enormemente l’ambito dei poteri della politica, portandolo a limiti finora impensabili (oggi essa decide perfino la possibilità dei cittadini di muoversi sul territorio), con eguale intensità si manifestano inevitabilmente i sintomi della strutturale mancanza di autorità e di efficacia della politica stessa, dell’inefficienza e del marasma che insidia i suoi organi. La crisi italiana del comando politico si esprime in tre momenti principali.

a) La debolissima legittimazione del governo. Innanzi tutto, come si sa, a norma di Costituzione, il presidente del Consiglio italiano non è un vero premier ma all’incirca un semplice primus inter pares. A meno naturalmente di non avere una propria forte caratura politica. L’avvocato Giuseppe Conte non ce l’ha ma cerca di procurarsela con l’aiuto delle straordinarie opportunità offertegli dall’epidemia. Al prezzo però di forzature, colpi di mano, personalismi, produzione di discorsi e documenti tanto lunghi quanto insignificanti, di rinvii e/o indebiti tentativi accentratori, che tutti insieme sortiscono l’effetto finale di mandare in tilt l’intera attività di direzione del Paese. A ciò si aggiunge la congenita debolezza del solito governo di coalizione, con l’inevitabile corredo di ricatti, di contrattazioni estenuanti e di compromessi al ribasso. Una debolezza aggravata stavolta dal trattarsi di una coalizione tra un partito, i 5 Stelle, la cui metà circa dei rappresentanti parlamentari oggi rappresentano verosimilmente solo se stessi, e un altro partito, il Pd, il quale, benché reduce dalla più grave sconfitta elettorale della sua storia recente, però governa egualmente grazie alla dabbenaggine della destra salviniana. Che capacità e autorità di direzione possono esprimere una leadership e una maggioranza simili?

b) La progressiva evanescenza della macchina amministrativa. Una lunga serie di riforme sciagurate (si veda in proposito quanto scrive da anni Sabino Cassese) ha di fatto smantellato la Pubblica amministrazione. Non sostituendo il personale andato in pensione, ricorrendo a dismisura al precariato, procedendo a improvvidi decentramenti, decretando insulse autonomie (ad esempio nel campo dell’istruzione), creando cosiddette Autorità competenti per ogni cosa, dando vita di continuo a «cabine di regia», a «task force», commissari e Commissioni varie, i governi succedutisi negli ultimi trent’ anni hanno sottratto alla PA poteri e competenze. Ne hanno mortificato qualunque professionalità. Ne hanno spento lo spirito e la vocazione. Cosicché oggi il potere centrale italiano si trova virtualmente privo di un’incisiva capacità di monitoraggio e di controllo sul territorio attraverso le proprie reti istituzionali, e a maggior ragione di possibilità d’intervento. Ormai, in pratica, in mano al governo non è rimasta che la rete delle prefetture, le quali infatti vengono sempre più caricate dei compiti più diversi.

c) La disarticolazione territoriale del potereÈ il fenomeno che scaturisce non tanto dall’istituzione delle Regioni, quanto dallo smisurato accrescimento delle loro competenze deciso nel 2001, stravolgendo l’originale dettato costituzionale e procedendo in sostanza a una vera e propria mutazione silenziosa della natura dello Stato repubblicano. Tale disarticolazione si esprime con la maggiore evidenza nella disparità simbolica con cui si presenta il potere. Da un lato, nelle periferie, dominano presidenti delle giunte regionali, che forti della propria elezione diretta e dunque di un potere inscalfibile e virtualmente incontrollato, nonché circondati dalla riverenza di tutte le clientele locali, sono divenuti i padroni di fatto di tutta la politica che si svolge lontano da Roma, e si atteggiano a pomposi signorotti dei «propri» territori compiacendosi del titolo usurpato di «governatori». I quali «governatori» con fare da sopracciò non fanno che annunciare, dire la loro su tutto, intimare, obiettare e ogni due per tre minacciano di disobbedire alle norme dello Stato centrale. Dall’altro lato, a fronteggiarli, perlopiù un ministro qualunque, o mettiamo pure un presidente del Consiglio. Nel primo caso, cioè, quasi sempre un cristoincroce generalmente privo di una vera base e di veri poteri, messo lì dalla buona grazia di un capopartito o capocorrente; nel secondo il capo del governo che però è prigioniero di norme e consuetudini consociative che gli impediscono di essere il capo di nulla, dovendo passare il suo tempo piuttosto a mediare, concertare, smussare, fare «verifiche», riunire «tavoli». Soprattutto un capo del governo che all’iperlegittimazione dei «governatori» non ha da opporre nulla di analogo, impegnato com’è a guardarsi dalle pugnalate alle spalle della sua stessa maggioranza.

È attraverso l’insieme dei meccanismi perversi fin qui descritti che nel nostro Paese il comando politico del centro, la capacità del governo di decidere e di vedere eseguite le proprie decisioni, sono diventati del tutto evanescenti. Producendo così l’effetto di distruggere il caposaldo essenziale della democrazia: quello secondo il quale l’elettorato con il proprio voto si esprime a favore di un programma politico, decide cioè a maggioranza le cose da fare, e poi ha il diritto di vedere che esse siano fatte. In assenza di ciò — o di qualcosa che a ciò assomigli il più possibile — la democrazia produce fatalmente qualunquismo, antipolitica e alla fine un’irrefrenabile voglia dell’«uomo» o del «governo forte»: il quale spenga pure tutti i talk show che vuole ma almeno faccia arrivare i vaccini a tempo e a destinazione.

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