Commentary on Political Economy

Saturday 5 June 2021

 

I diritti (negati) di Saman e le battaglie di serie B

desc img
di Goffredo Buccini

La storia della ragazza pachistana di Novellara, punita crudelmente dalla famiglia per avere rifiutato le nozze combinate, ha faticato a emergere nel dibattito pubblico

Il destino toccato a Saman Abbas squarcia un velo. Chiama in causa politici e giornalisti, femministe e società civile: in fondo, tutti noi. Perché denuncia una sottocultura gretta e spietata — si direbbe ormai radicata nelle pieghe più nascoste del nostro Paese — ma anche la persistente difficoltà che abbiamo ad affrontarla e persino a raccontarla, in quanto il suo tessuto connettivo è la comunità islamica, con l’annesso fardello di uno scontro ideologico dal quale fatichiamo a liberarci.

La diciottenne pakistana di Novellara, punita ferocemente dalla famiglia per avere rifiutato un matrimonio combinato con un cugino in una madrepatria per lei lontana, parla ovviamente a ciascuno: come figlia, sorella, donna, cittadina italiana che non abbiamo saputo proteggere. Eppure, la sua storia ha faticato a emergere nel dibattito pubblico di un Paese altrimenti sempre pronto, e giustamente, a insorgere e scendere in piazza contro femminicidi e violenza sulle donne. Al punto che, per paradosso, a farci i conti sono stati dapprincipio soprattutto gli islamici: islamici italiani, beninteso, integrati da tempo, e dunque feriti più di noi da questo riflesso crudele e ancestrale proiettato sulla loro religione.

Il 3 giugno l’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche d’Italia, ha emesso una fatwa contro «i matrimoni forzati nell’Islam», denunciandone l’illiceità: «Una pratica tribale che non può trovare alcuna giustificazione religiosa». La fatwa è un «parere» dottrinale: avvezzi a quelle usate dai fondamentalisti quali sentenze di morte contro qualche «miscredente» (Salman Rushdie, per citare il più noto), abbiamo quasi ignorato sui media un atto importante, il primo, sulla tragedia di Saman, diremmo una sentenza di vita, in questo caso emessa da 110 imam legati all’Unione.

Il secondo atto, tutto politico, è venuto ancora dall’Islam italiano: come il bambino che grida «il re è nudo», una giovane e coraggiosa consigliera comunale del Pd di Reggio Emilia, Marwa Mahmoud, ha tirato in ballo il proprio partito e la sua lentezza nel prendere posizione su una clamorosa violazione dei diritti umani quale è quella patita da Saman.

Esistono battaglie «di serie B» quando la vittima della violenza è una donna di origine straniera e, più precisamente, di religione musulmana? Una parte di spiegazione, forse, sta proprio qui, in un riflesso quasi pavloviano della nostra sinistra politica e culturale: il terrore, a indignarsi con troppa nettezza, di essere tacciata di razzismo, confusa con gli xenofobi di professione secondo i quali l’Islam è cattivo e violento per definizione. Naturalmente questa spiegazione, aggravata dal sospetto di pescare per interessi elettorali nella constituency degli stranieri ancora a corto di diritti, fa insorgere opinionisti e politici di sinistra. Ma è innegabilmente più facile mostrare solidarietà un po’ paternalista verso i migranti sbarcati dalle carrette del mare a Lampedusa piuttosto che andare a ficcare il naso in questioni così complesse e difficili da dirimere come la vita di famiglie spesso ancora ai margini del processo di integrazione. E allora sta qui, forse, la motivazione più seria e profonda: nella separatezza di talune comunità, dove il calvario di Saman ricorda tanto da vicino quelli di Hina Saleem o di Sana Cheema, ammazzate dalle famiglie pakistane in circostanze assai simili e con identici moventi: la voglia di libertà di ragazze che si sentivano ormai occidentali ma erano percepite in modo assai diverso dal contesto familiare. In questo mondo a parte, e nella nostra fatica a intrometterci in esso, si consuma una contraddizione che può diventare fatale.

Izzedin Elzir, che ha guidato l’Ucoii fino a pochi anni fa, raccontava dei problemi, anche per gli imam, a penetrare famiglie bengalesi della borgata romana di Torpignattara nella quali si dava per scontato il diritto di ritirare le figlie dalla scuola alla prima adolescenza. I dati del Miur hanno scolpito più volte questa tendenza, radicata nelle comunità più arretrate, che si traduce nella scuola negata alle ragazze islamiche. Questa storia è dunque l’occasione per guardarci in faccia. Senza assurde pretese di superiorità, non giustificabili in un Paese che per tre secoli ha bruciato le «streghe» col Malleus Maleficarum scritto da due domenicani e, fino ai primi anni Ottanta dello scorso secolo, ha mantenuto nel suo apparato giuridico il delitto d’onore e il matrimonio riparatore. Ma, piuttosto, con la forza della nostra Costituzione, il cui articolo 3 non contempla divisioni per fazioni o interessi partitici nella tutela dell’uguaglianza. Ciò che dovrebbe bastare, alla sinistra italiana, per superare ubbie e imbarazzi residui. E che dovrebbe convincere ciascuno di noi del nostro dovere a intrometterci in queste vite degli altri: a scuola, al lavoro, sul pianerottolo, sul bus, ovunque si levi accanto a noi una Saman che rivendica solo il suo diritto all’Italia.

5 giugno 2021, 22:03 - modifica il 5 giugno 2021 | 22:03

No comments:

Post a Comment