Commentary on Political Economy

Tuesday 23 August 2022

THE WEST'S UNCONDITIONAL SURRENDER TO THE TOTALITARIAN AUTOCRACIES

 Crisi del gas: per capire le ragioni non bisogna guardare alla guerra in Ucraina ma a Cina e India

di Federico Rampini

22 agosto 2022

La nuova geopolitica dell’energia vede affermarsi un «blocco orientale», con Cina e India nel ruolo di consumatori e la Russia come fornitrice


L’annuncio dell’Eni su una scoperta di gas al largo di Cipro è positivo ma non risolve i problemi energetici dell’Italia a breve termine: per trasportare quel gas occorre costruire il gasdotto Eastmed che non sarà completato prima di quattro anni, secondo gli stessi vertici dell’Eni. Nel frattempo imperversa l’iperinflazione del gas e il pericolo che manchi in Europa in questo autunno-inverno è serio. Come ricorda Alberto Clò qui il governo tedesco «stima che i consumi debbano ridursi di almeno un 20%, ben al di sopra della riduzione del 15% (per molti Paesi ridotta al 7%) indicata dalla Commissione di Bruxelles». Uno dei fattori dietro l’ulteriore lievitazione dei prezzi è «l’affannosa ricerca da parte della Germania di gas alternativo a quello russo per coprire i consumi e accrescere gli stoccaggi».


Sullo shock energetico in corso c’è molta confusione e disinformazione. Tra i luoghi comuni che impediscono di capire quel che ci sta accadendo, due sono particolarmente fuorvianti e anacronistici. Uno attribuisce la crisi alla guerra in Ucraina e alle sanzioni. Un altro demonizza le multinazionali occidentali del petrolio e del gas. Vediamo perché bisogna fare pulizia di questi preconcetti.


La guerra in Ucraina – seguita da sanzioni occidentali peraltro abbastanza limitate contro il petrolio russo, e dalle ritorsioni di Vladimir Putin che ci ha tagliato le forniture di gas – è successiva alla crisi energetica. I prezzi del gas erano già impazziti più di un anno fa, molto prima che i russi invadessero l’Ucraina. Una causa contingente fu la débacle dell’energia eolica nel Mare del Nord per mancanza di vento: un brutale richiamo alla realtà sui limiti delle energie rinnovabili. Pure quello però fu un «incidente» non decisivo, in quanto aggravò una crisi pre-esistente. Come ha spiegato l’esperta inglese Helen Thompson (An energy reckoning looms for the west, Financial Times, 20 agosto 2022), il motore dominante che sta dietro l’aumento dei consumi e e dei prezzi delle energie fossili è la Cina. Per capire l’iperinflazione di gas e petrolio bisogna anzitutto guardare a Oriente. Non a caso, le quotazioni del greggio hanno subito qualche flessione nelle scorse settimane: quando l’economia cinese ha dato segnali di rallentamento.


Al di là delle variazioni di breve periodo, la Thompson dimostra che noi siamo dentro un ciclo ventennale segnato dal boom della domanda cinese, l’evento dominante per capire la situazione energetica del pianeta dall’inizio del millennio. Nel 2019 il consumo di energia della Cina era più del quintuplo rispetto al 2000, e molto superiore ad ogni altro Paese al mondo inclusi gli Stati Uniti. Nessun altro fattore ha un simile impatto. La cosiddetta «impronta energetica» della Cina è quella di un mastodonte senza eguali, in grado di sconvolgere tutti gli equilibri. Non sempre ce ne siamo accorti. Durante il decennio scorso, dal 2010 in poi, lo sconvolgente boom dei consumi cinesi venne mascherato, perché in parte fu soddisfatto da un parallelo boom nella produzione americana di shale oil e shale gas, petrolio e gas naturale estratti da rocce attraverso la tecnica del fracking. La produzione americana è raddoppiata dal 2010 al 2019, e solo questo ha consentito al mondo di non essere intrappolato in uno shock energetico che era già ben visibile nelle fiammate dei prezzi del 2005-2007. Ma la produzione americana di shale oil e shale gas è incappata nei venti contrari dell’ambientalismo: dalle normative verdi di Washington fino al disinvestimento di Wall Street, molto è stato fatto per disincentivare gli investimenti. E senza investimenti la produzione di energie fossili declina. Non ci siamo accorti subito del problema perché all’inizio del 2020 la pandemia ha chiuso le fabbriche cinesi e depresso la domanda. Ma appena è ripartita la produzione cinese, e con essa i consumi energitici del «pachiderma», i prezzi sono impazziti: la crisi del gas ha origine proprio nella ripresa cinese del 2021, un anno prima della guerra in Ucraina.


Questo scenario geopolitico era stato capito bene dai russi. Molto prima che Putin lanciasse l’aggressione militare contro l’Ucraina, il gigante russo dell’energia Rosneft aveva già avviato una «torsione geopolitica» verso Oriente. Sotto la guida di Igor Sechin, Rosneft cominciò a guardare alla Cina come partner privilegiato fin dal 2004. Da allora si è andata rafforzando l’alleanza tra Rosneft e la principale azienda energetica di Pechino, la China National Petroleum Corporation (Cnpc). Come ha scritto The Economist (Oil’s new eastern bloc, 16 luglio 2022), «abbondanti pre-pagamenti e finanziamenti dalla Cina hanno consentito a Rosneft di diventare una delle più grandi compagnie petrolifere quotate nel mondo». L’ultimo degli accordi di forniture di petrolio da Rosneft a Cnpc fu siglato in occasione dell’incontro fra Putin e Xi Jinping il 4 febbraio di quest’anno all’apertura dei Giochi Invernali: mancavano tre settimane all’invasione dell’Ucraina. Dopo le sanzioni occidentali contro il petrolio di Putin, le esportazioni di greggio da Mosca a Pechino sono cresciute a tal punto che la Russia ha superato l’Arabia saudita come primo fornitore della Cina.


La Rosneft ha aggiunto alla sua strategia cinese anche una strategia indiana: per ridurre la sua dipendenza dai mercati occidentali ha investito in una società indiana di raffinazione petrolifera, la Nayara Energy. Le esportazioni di greggio russo verso l’India sono balzate da quasi zero a un milione di barili al giorno, a prezzi scontati. La nuova geopolitica dell’energia vede affermarsi così un «blocco orientale», con Cina e India nel ruolo di consumatori e la Russia come fornitrice. Pur con tutte le differenze d’interesse che oppongono i compratori e i venditori, e malgrado i conflitti strategici fra Delhi e Pechino, questi tre Paesi hanno un impatto smisurato sul futuro energetico e ambientale del pianeta. Le loro classi dirigenti non hanno mai creduto alla possibilità di un passaggio rapido e totale alle energie rinnovabili: anche se questo non impedisce alla Cina di costruirsi un semi-monopolio nelle energie verdi, né trattiene Cina e India dall’essere all’avanguardia nella costruzione di centrali nucleari.


Che vi sia ancora un futuro per le energie fossili – durante una lunga transizione in cui devono accompagnare solare ed eolico e compensare le loro manchevolezze – lo crede anche il più celebre degli investitori americani, il multimiliardario Warren Buffett. Pur essendo un convinto assertore dell’emergenza climatica, e un sostenitore degli investimenti Green, Buffett ha chiesto via libera alle autorità di Borsa per comprare con il suo fondo d’investimento Berkshire Hathaway fino al 50% della compagnia petrolifera Occidental Petroleum, una delle principali multinazionali energetiche statunitensi. È un investimento significativo, che sembra riportare in auge il glamour sinistro delle «sette sorelle»: ma è un’illusione, perché il potere energetico oggi sta altrove.


Le «sette sorelle» fu un’immagine popolarizzata da Enrico Mattei quando era alla guida dell’Eni: alludeva all’esistenza di una sorta di cartello, o di collusione oggettiva, tra le multinazionali petrolifere occidentali. Cinque erano americane: Exxon, Mobil, Chevron, Texaco, Gulf Oil. Due erano inglesi: Shell e Bp. Dagli anni Quaranta fino all’inizio degli anni Settanta, avevano effettivamente dominato i giochi del petrolio. L’Eni di Mattei, così come le francesi Elf e Total, tentavano di fare le guastafeste con incursioni in Nordafrica e Medio Oriente. Ma quel sistema dominato dal capitalismo privato angloamericano cominciò a traballare nel 1973 con il primo shock petrolifero, quando il cartello Opec dei paesi produttori impose un embargo petrolifero contro diversi paesi occidentali per castigarli dell’appoggio dato a Israele durante la guerra dello Yom Kippur. Le risorse petrolifere entrarono in una fase di nazionalizzazione, che non si è mai conclusa, anzi ha conosciuto nuove accelerazioni di recente. Oggi chi continua a descrivere le compagnie energetiche occidentali come delle potenze, parla di un mondo che non esiste più. La più grande delle sette sorelle, Exxon, è stata perfino espulsa dall’indice Dow Jones perché la sua capitalizzazione è troppo bassa.


La geopolitica odierna dell’energia è dominata da aziende di Stato, saldamente controllate da Paesi emergenti. La regina è Aramco, l’azienda pubblica dell’Arabia saudita che di recente ha avuto un aumento del 90% dei profitti, ed ha di gran lunga la capitalizzazione di Borsa più alta. Proprio perché sono proprietari delle maggiori aziende energetiche al mondo, gli Stati del Medio Oriente accumuleranno nei prossimi quattro anni altri 1.300 miliardi di dollari di ricchezza, un immenso trasferimento di risorse Nord-Sud, secondo le stime del Fondo monetario internazionale. Tra i beneficiari ci saranno i loro fondi sovrani come il Saudi Arabia Public Investment Fund, la Qatar Investment Authority, Abu Dhabi Investment Authority, Kuwait Investment Authority. Anche in altre parti del mondo si assiste a questa duplice tendenza: da una parte una rivalutazione delle energie fossili il cui ruolo deve «accompagnare» le rinnovabili (per ogni centrale solare ce ne vuole una tradizionale che la affianchi di notte); d’altra parte la crescente concentrazione del potere energetico nelle mani degli Stati produttori. L’ultimo esempio è in Messico, dove il presidente Andrés Manuel Lòpez Obrador (abbreviato in Amlo) – un socialista populista – ha deciso di investire 6,2 miliardi di dollari per costruire 15 centrali elettriche a carburante fossile, e allo stesso tempo ha deciso di rafforzare il controllo pubblico sulle fonti di energia attraverso il monopolio di Stato Pemex. «Ignoriamo il canto delle sirene – dice Amlo – cioè quelle voci che profetizzavano la fine dell’era del petrolio e l’arrivo massiccio delle auto elettriche e delle energie rinnovabili». In tutta l’America latina una nuova generazione di leader di sinistra rilancia le nazionalizzazioni di tutto ciò che non era ancora pubblico: e questo fra l’altro riguarda anche le terre rare e minerali strategici per le energie rinnovabili. Lo stesso vale per l’Africa e l’Asia. Il ruolo delle sette sorelle è stato soppiantato da tempo da colossi pubblici soggetti ai governi, i veri centri di potere dove si decide il futuro dell’energia.


Una parte dei paesi emergenti, quelli sprovvisti di materie prime, in questa stretta energetica sono nei guai molto più di noi occidentali. Il Pakistan in bancarotta non è riuscito ad aggiudicarsi una sola gara d’asta per acquisto di gas liquido, spiazzato da una corsa al rialzo dei prezzi dove si confrontano gli europei e gli asiatici ricchi come Cina Giappone Corea. Lo Sri Lanka, altro paese in bancarotta, ha dovuto imporre un rincaro del 264% nelle bollette elettriche, perché non può più permettersi di sovvenzionare le piccole utenze a carico del bilancio pubblico e deve scaricare i rincari dei prezzi sui consumatori.


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