Commentary on Political Economy

Wednesday 12 October 2022

 Il campo stretto di Berlino

di Ernesto Galli della Loggia

11 ottobre 2022

Per decenni i governanti tedeschi sono stati guidati in misura pressoché esclusiva dalla preoccupazione di non dispiacere al risparmiatore di casa. A qualunque costo: anche quello, ad esempio, di condannare praticamente alla fame la Grecia pur di tutelare i bilanci delle banche tedesche


Non capita spesso che il giudizio sul ruolo degli Stati e sulle loro politiche cambi in maniera così repentina come sta accadendo per la Germania. Soprattutto agli occhi di un numero sempre maggiore di cittadini europei, infatti, la sua immagine sta subendo un mutamento radicale. Da fondamenta sicura e guida riconosciuta della costruzione europea come appariva fino a non molto tempo fa, sempre accorta ed equanime sotto ogni punto di vista, la Repubblica federale è diventata simbolo di un’egoistica chiusura in se stessa.


Che cosa è successo? Naturalmente bisogna considerare il mutamento profondo che sta producendosi nella situazione dell’Europa e del mondo. A governare la barca in un mare calmo son buoni tutti (o quasi), è ben diverso quando arriva la tempesta. È proprio in circostanze come queste, però, che si vede la qualità di chi è al timone, e a differenza del passato la qualità del timoniere tedesco da tempo non sembra davvero delle migliori.


Il fatto è che il termine Germania definisce in realtà cose molto diverse. La Germania alla quale noi ancora oggi subito pensiamo sotto l’impressione tuttora vivissima della storia della prima metà del Novecento è una società tenace e coesa, fortemente animata da un vivo sentimento di destino collettivo al cui servizio sono orientate anche la sua ingegnosità e la sua laboriosità: e a sovraintendere su tutto immaginiamo una classe dirigente abituata a non guardare all’oggi ma intimamente posseduta dal senso di un’alta missione nazionale (concepita magari con conseguenze catastrofiche, ma questo è un altro discorso). Insomma la Germania a cui subito pensiamo è in sostanza la Germania prussiana, non è la Repubblica federale tedesca.

È quella Germania che si costituì dopo il 1870 per opera della Prussia: della dura Prussia guerriera e luterana dell’est baltico e degli Junker, cuore dell’alta burocrazia e dell’esercito, la quale dopo Sedan sottomise le altre e assai diverse regioni del Paese: a cominciare dalla Renania e dalla Baviera entrambe a maggioranza cattolica ed espressione di tutt’altre tradizioni. Ma dal 1945 questa Germania non esiste più: cioè da quando in seguito alla sconfitta bellica il suo composito organismo si sfasciò, non solo trovandosi diviso in due Stati, ma venendo altresì amputato a favore della Polonia e della Russia sovietica di parte del Brandeburgo, e delle province orientali della Pomerania e della Posnania, proprio le custodi dell’antico retaggio prussiano.


Ora, tale retaggio aveva sì molto ombre — pur se esso era stato assai meno di qual che si pensi responsabile del nazismo — ma aveva al suo attivo, oltre quelli accennati sopra, un grande punto di forza. Vale a dire un’altissima idea del ruolo del comando in generale ma insieme della responsabilità che chi esercita il comando deve essere pronto ad assumersi se vuole essere all’altezza dei propri compiti. In qualche modo, dunque, esso rappresentava una cultura della leadership ideale per dar vita a una forte centralità della politica, alla preminenza della sfera politica su quella economica.


Ma la democrazia tedesca postbellica, amputata oltre che geograficamente anche culturalmente del suo retroterra prussiano, non ha potuto che seguire una via opposta. Vaccinata per effetto della sconfitta dalle conseguenze che una politica può avere, ossessionata soprattutto dal ricordo della crisi economica che portò al disastro la Repubblica di Weimar e al trionfo di Hitler, essa è stata tutta edificata sul culto dell’economia e a scapito della politica. Della grande politica, della politica delle scelte importanti e degli obblighi che essa comporta, non ne vuol più sapere.


Per decenni i governanti tedeschi sono stati guidati in misura pressoché esclusiva dalla preoccupazione di non dispiacere al risparmiatore di casa, di non creargli ansie con politiche di bilancio meno che ortodosse, di tutelare sempre e comunque sia il sistema creditizio tedesco sia l’industria nazionale, le sue delocalizzazioni all’estero e le sue esportazioni. A qualunque costo: anche quello, ad esempio, di condannare praticamente alla fame la Grecia pur di tutelare i bilanci delle banche tedesche, anche a costo di asservirsi economicamente alla Russia per il rifornimento di energia (di fronte all’ex cancelliere Schröder, manutengolo di Gazprom ma tuttora onoratissimo in patria, Matteo Salvini è un povero dilettante allo sbaraglio), ovvero di legarsi mani e piedi al mercato cinese dal quale per esempio i maggiori produttori di automobili sono oggi arrivati a dipendere per gran parte dei loro affari.

La crisi in cui si dibatte da anni l’Europa, la sua incapacità/impossibilità di divenire un vero soggetto politico è in buona misura il frutto di questo sovranismo ipereconomicistico che la Germania incarna. Spinta ad anteporre sempre e comunque i propri interessi economici e stretta dai vincoli che tali interessi le pongono, la Repubblica federale — che pure mille motivi destinerebbero ad essere il motore e la guida del processo di unificazione politica del continente — non vuole e non sa svolgere questa parte. Non vuole e non sa affrontare i compiti di una vera leadership: guardare lontano, avere la capacità di parlare all’opinione pubblica europea, essere attenta agli interessi di tutti e contemperarli con i propri, qualche volta decidendo addirittura di sacrificare quelli a questi. Tutti compiti che a Berlino ho l’impressione che debbano sembrare poco meno che fantascientifici.

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