Commentary on Political Economy

Saturday 15 October 2022

Russia, perché la vera guerra è tecnologica (e per ora la vinciamo noi)

di Federico Rampini

15 ottobre 2022

L’armata russa non è all’altezza del know how occidentale. È sul terreno della tecnologia che la differenza tra Occidente e Russia si sta rivelando cruciale


Un filo comune tiene insieme le risposte che l’America sta dando sia alla guerra guerreggiata di Vladimir Putin sia alla sfida economica e geopolitica della Cina. Gli Stati Uniti sono l’unica fra le superpotenze a possedere l’intero “triangolo d’oro” delle risorse decisive: una moneta universale, l’autosufficienza energetica, il primato nelle tecnologie (incluse quelle militari). La prova data dalle tecnologie Nato sul terreno ucraino contro gli arsenali russi è significativa: dimostra che l’Occidente rimane un passo avanti. Da notare che i paesi Nato in questi sette mesi e mezzo di guerra sono stati abbastanza avari dei propri arsenali più sofisticati, le forniture a Kiev sono arrivate col contagoccie, tant’è che l’esercito ucraino continua a usare in buona parte armi vecchie di fabbricazione sovietica (a volte ottenute dai polacchi e altri paesi dell’Est che le conservavano dai tempi del Patto di Varsavia). La contraerea ucraina è riuscita comunque ad abbattere una percentuale elevata dei missili russi, pur usando armi obsolete, perché aveva accesso a informazioni occidentali. La rete satellitare americana, per esempio. (Nella foto: un’antenna della rete satellitare Starlink - azienda di Elon Musk - in uso all’esercito ucraino, fotografata nei pressi di Izyum). Dunque è pur sempre sul terreno tecnologico che la differenza tra Occidente e Russia si sta rivelando cruciale. E Putin ha perso quasi ogni accesso alle tecnologie americane in seguito alle sanzioni.




Sfida Usa alla Cina: embargo sui semiconduttori

In quanto alla sfida con la Cina, Biden sta ribaltando l’approccio di Donald Trump: più dei dazi su quel che ci vendono i cinesi, conta l’embargo su quello che gli vendiamo noi. Trump era fissato soprattutto con il macro-squilibrio nella bilancia commerciale, l’invasione di prodotti made in China. Biden – pur lasciando in vigore i dazi del suo predecessore – pensa che il problema più serio sia un altro: dobbiamo smettere di esportare in Cina tecnologie sofisticate, che Pechino usa a fini militari o comunque per ridurre il divario tra noi e loro. Nella nuova dottrina Biden, di tutte le misure prese per contenere l’ascesa della Cina la più importante è il divieto sulle forniture di semiconduttori avanzati e macchinari hi-tech made in Usa. È così che fra l’altro la temutissima Huawei (telecom 5G) è quasi scomparsa dai nostri schermi radar, da quando ha perso l’accesso alla tecnologia americana. Trump tentò, con successi modesti, di innalzare barriere protezionistiche contro i prodotti cinesi che affluiscono nei supermercati americani. Poi per la verità cominciò anche lui a varare sanzioni mirate contro le esportazioni di tecnologia a questa o quella azienda di Stato legata alle forze armate cinesi (Huawei in testa).



Convincere gli alleati o convincerli

Biden prosegue l’azione del suo predecessore in modo più sistematico. Si sta muovendo per innalzare barriere protettive “in uscita” contro quelle tecnologie americane – o dei paesi alleati – che finora erano state vendute ai cinesi con il risultato di rafforzarli pericolosamente. Semiconduttori e macchinari per produrli, sono i settori presi di mira con il divieto di vendite alla Cina. È noto che gli Stati Uniti non hanno più una posizione dominante nei semiconduttori, il numero uno mondiale è Taiwan. Però su alcuni segmenti molto specializzati e di altissima gamma, il made in Usa è ancora al top. Inoltre, anche se l’America ha perso il primato nella produzione dei semiconduttori, resta un attore formidabile nella fabbricazione dei macchinari complessi che a loro volta sfornano i microchip. Chiudere i rubinetti delle forniture alla Cina significa privare Pechino di tecnologie che possono finire nelle sue armi più micidiali, così come nei supercomputer e nell’intelligenza artificiale. Non a caso Pechino ha già reagito a questo embargo americano con toni duri, accusando Biden di voler “sabotare lo sviluppo della Cina”. A Washington c’è chi teme l’opposto: il rischio cioè che l’America chiuda la stalla quando i buoi sono già scappati, ovvero che questo embargo arrivi troppo tardi, quando la Repubblica Popolare è ormai in grado di replicare le nostre tecnologie migliori avendole comprate, o spiate, e comunque copiate per decenni.




Un club di sette paesi hi-tech

Le sfide che Biden sta affrontando sono molteplici. Ha bisogno di coinvolgere gli alleati, in particolare Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Regno Unito, Olanda, Israele. Questi sei paesi fanno parte con gli Stati Uniti del ristretto club occidentale dove sono ubicate le aziende di punta che producono semiconduttori, o componenti, o macchinari per fabbricarli. Il dispositivo dell’embargo americano può abbattersi su di loro con il sistema delle “sanzioni secondarie”, o unilaterali: ogni azienda europea o asiatica che vende ai cinesi violando i divieti americani rischia di finire sulla lista nera di Washington e di subire conseguenze pesanti. L’Amministrazione Biden però preferisce cercare la cooperazione degli alleati, a questo fine conduce negoziati serrati con Tokyo, Seul, Taipei, Londra, L’Aia e Tel Aviv. C’è anche un sottile dosaggio fra sanzioni ed esenzioni, che riguarda gli stessi produttori americani di semiconduttori e altre tecnologie iper-sofisticate: nessuno rinuncia con piacere a un grosso mercato come la Cina, il patriottismo non è mai stato un sentimento dominante nei consigli d’amministrazione delle multinazionali. Perciò l’esecutivo Biden esamina, caso per caso, le richieste di esenzione, e talvolta le concede.



Intanto la recessione cambia scenario

L’embargo americano contro la Cina si abbatte sui semiconduttori proprio mentre la previsione di una recessione in arrivo sta infliggendo i suoi danni. Anche in questo settore l’alternarsi dei cicli di mercato è veloce e brutale. All’inizio del 2022 eravamo ancora in piena penuria di semiconduttori, ragion per cui si allungavano le liste d’attesa perfino dai concessionari d’auto (anche le nostre vetture sono piene di microchip, ancorché non della tipologia più sofisticata). Dalla seconda metà dell’anno il quadro si è capovolto. Gli effetti di una recessione in arrivo sono già ben visibili, per esempio, nel calo del 15% di vendite di personal computer. I semiconduttori ne risentono, a loro volta hanno un problema di sovrapproduzione, il contrario della penuria. Il numero uno mondiale, Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc), ha perso il 47% in Borsa nel 2022. La chiusura del mercato cinese – un po’ perché quell’economia rallenta, un po’ per l’embargo di Biden – non può che peggiorare le prospettive.



Aiuti di Stato per evitare gli errori del passato

Questo accade proprio mentre la capacità produttiva nei semiconduttori sta aumentando, visto che i big del settore costruiscono nuove fabbriche – soprattutto negli Stati Uniti, dove sono attratti dai sussidi di Biden (280 miliardi). Si rischia di passare da un eccesso all’altro. Proprio questo giustifica la politica industriale americana. Costosa, certo, per gli aiuti di Stato versati all’industria con i soldi del contribuente. Ma se c’è un caso in cui non si può abbandonare un settore all’oscillazione naturale dei cicli di mercato, è quello di tecnologie essenziali come i semiconduttori. Se è vero che si tratta di un settore strategico, e se qui si combatte una sfida decisiva con la Cina, non possiamo abbandonare le aziende alla mercè della congiuntura, col rischio che rinuncino a investire quando manca la domanda. Se lo facessimo, ripeteremmo in questo settore gli errori commessi in passato per il gas naturale o i pannelli solari.


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15 ottobre 2022, 11:51 - modifica il 15 ottobre 2022 | 15:11


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