Commentary on Political Economy

Wednesday 30 November 2022

 

La causa nascosta dietro le proteste in Cina

Dietro le proteste di questi giorni in Cina, oltre all’esasperazione per i lockdown e quarantene da pandemia, c’è una causa più antica: la disoccupazione giovanile alta e crescente. In particolare fra i laureati.

È un dato in contrasto con l’immagine che abbiamo del colosso asiatico come di una «success story», un miracolo economico.

Nel successo innegabile non tutto risplende, e le statistiche ufficiali di Pechino lo ammettono: sono i dati del governo a indicare una percentuale del 18% di disoccupati nella fascia di età fra i 16 e i 24 anni.

Nell’estate 2023 il sistema universitario sfornerà altri 12 milioni di laureati. Molti di loro non troveranno un lavoro, o aspetteranno anni prima di collocarsi, e spesso a livelli retributivi inferiori alle attese (loro e dei genitori), nonché dei sacrifici compiuti.

Il dramma della disoccupazione giovanile è accentuato dal rallentamento della crescita economica, a cui contribuiscono la politica «zero Covid» e la guerra in Ucraina con il corollario di tensioni geopolitiche Est-Ovest.

Però l’alto tasso di giovani senza lavoro è un fenomeno ben più antico, esisteva prima della pandemia e della guerra.

La durezza della selezione meritocratica cinese a scuola affonda le radici nella cultura confuciana. Oggi ha anche una giustificazione attuale e stringente: il mercato del lavoro non è facile per le nuove generazioni. Vista da lontano, al termine di trent’anni di crescita che hanno migliorato in modo spettacolare il benessere della popolazione, la Cina può sembrare agli occidentali un paese generoso di opportunità per i giovani. In realtà, soprattutto dopo un rallentamento della crescita nel 2008 (conseguenza della crisi americana che frenò le esportazioni), il fenomeno della disoccupazione o sottoccupazione giovanile è diventato una costante anche nel paesaggio cinese.


Già nel 2012 la percentuale dei giovani laureati sotto i 26 anni di età senza un lavoro era molto alta, il 16%, cioè il doppio che negli Stati Uniti. In Cina soffrono meno della disoccupazione quei giovani che hanno studiato poco: il tasso di disoccupazione scende all’8% per quelli che hanno solo il diploma liceale e al 4% per chi ha fatto solo la scuola elementare.

Questo aiuta a capire l’insistenza con cui Xi Jinping punta a trasformare la Cina in un’economia ad alta tecnologia, qualificandola in settori avanzati, e ridimensionando gradualmente il suo ruolo di «fabbrica del pianeta» che si fondava sullo sfruttamento di manodopera a basso costo: oggi ha un problema di disoccupazione intellettuale, più che di disoccupazione operaia o contadina.

Il paradosso è che la sovrabbondanza di giovani laureati tra i Millennial o nelle generazioni X e Z nasce da una scelta fatta proprio per impedire la protesta giovanile.

Nel 1997 ci fu una crisi asiatica, che cominciò dai Paesi del sud-est come Indonesia e Thailandia: colpiti da crolli di Borsa, fughe di capitali, costretti a svalutare le loro monete. La Cina riuscì a limitare i danni grazie al dirigismo statale, al controllo pubblico sull’economia, alle restrizioni nei movimenti di capitali. Però ebbe una caduta delle esportazioni. E soprattutto, vide diversi governi del sud-est asiatico traballare sotto l’urto delle proteste di piazza.

In Indonesia furono gli studenti ad animare una rivolta che portò alla caduta del presidente Suharto. Circolava a Pechino il timore che la Cina diventasse «la prossima Indonesia». Nel 1999 i dirigenti comunisti decisero di spalancare gli accessi all’università per i giovani, in modo da «parcheggiarli» negli atenei evitando che dopo il diploma liceale andassero ad affollare i ranghi dei disoccupati.

Nel 1999 le iscrizioni all’università aumentarono del 40% di colpo. In un biennio, dal 1998 al 2000, ci fu un raddoppio: da un milione a due milioni di universitari. Al termine di un decennio erano saliti a sette milioni.

Le scelte fatte allora hanno portato – come effetto collaterale indesiderato – a una perdita di valore di molte lauree. Facilitando l’accesso all’università, si è generata una selezione allo stadio successivo: tra i pochi in grado di accedere alle università di élite, e i molti che ripiegano verso gli atenei di serie B e C. La selezione meritocratica si riaffaccia in nuove forme.

Non basta più passare il difficilissimo esame gaokao che apre le porte all’università; bisogna superarlo con risultati strepitosi, fenomenali, per ambire alle università di élite. I tre quarti dei promossi al gaokao invece finiscono in università di livello medio-basso, le cui lauree non garantiscono un lavoro, tanto meno un posto qualificato e ben pagato.

Più di un quarto dei neolaureati cinesi, un anno dopo aver concluso gli studi sono ancora senza lavoro. Comincia per loro il calvario delle Job Fair di stile americano, quelle fiere del lavoro dove le aziende affittano degli spazi espositivi per pubblicizzarsi e intervistare i potenziali candidati all’assunzione. Le aziende più grandi, solide e rinomate, spesso evitano quelle fiere, dove pullulano opportunità illusorie o truffaldine: per esempio lavori nel settore delle vendite immobiliari, senza stipendio fisso, remunerati solo con una commissione sulle vendite; idem per i piazzisti di prodotti finanziari.

Un esercito di giovani neolaureati finiscono per accettare di tutto, lavoretti precari e senza un futuro, affollando i cosidetti «formicai»: caseggiati popolari costruiti in fretta e furia nelle squallide periferie delle megalopoli come Pechino e Shanghai.

È stata coniata l’espressione «tribù di formiche», per designare questa fascia povera e insicura di giovani. Nella «tribù di formiche», il livello di reddito e le condizioni di vita non sono molto migliori rispetto a quelle del popolo migrante, contadini che affluiscono dalle campagne per lavorare in fabbrica.

I neolaureati poveri sentono il peso di una doppia delusione: la propria, e quella dei genitori, che hanno creduto in un futuro radioso dopo la promozione al gaokao. Le diseguaglianze che affliggono la società cinese sono ben visibili quando dopo la laurea iniziano i colloqui d’assunzione: i figli dei ricchi, i raccomandati della nomenclatura comunista, hanno corsie preferenziali.

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