Commentary on Political Economy

Saturday 12 November 2022

Olaf Scholz, ci si può fidare di quest’uomo?

di Wolfgang Münchau

08 novembre 2022

La visita del capo di governo tedesco in Cina non è soltanto un gesto che tradisce il doppio gioco politico, ma anche un sintomo di disperazione da parte di un leader che si aggrappa disperatamente al passato


Olaf Scholz segue da presso la tradizione dei capi di governo tedeschi, che amano fare affari con i dittatori. Stringere la mano di un leader cinese rientra nel DNA della SPD. «Abbiamo perso la Russia, abbiamo perso il nostro dividendo di pace, lasciateci almeno la Cina!» È questo il messaggio ricorrente a Berlino negli ultimi giorni, diffuso da alcuni giornalisti creduloni, ma il vento sta cambiando. Siamo davanti a una vera Zeitenwende, per usare un’espressione usata dallo stesso Scholz, vale a dire una svolta epocale. Tranne che per gli amministratori delegati che hanno accompagnato Scholz nella visita a Pechino, i capi d’impresa tedeschi si mostrano assai più scettici. La maggior parte di essi, a eccezione dei giganti della Dax30, hanno accolto una versione più decentralizzata della globalizzazione, rispetto a quanto abbia fatto la combriccola dei capitalisti, formata, nella fattispecie, da personaggi quali Gerhard Schröder, Angela Merkel e Olaf Scholz.


La Germania è un paese in transizione, che si muove verso un nuovo modello economico dai contorni ancora imprecisati. Come in tutte le transizioni, resta ancora una vecchia guardia che si sforza in ogni modo di rallentare il progresso. Scholz appartiene decisamente a quella categoria di politici per i quali il successo economico si misura in base ai volumi di esportazioni industriali e alle eccedenze delle partite correnti. I cancellieri tedeschi, a cominciare da Helmut Schmidt negli anni Settanta, hanno preso l’abitudine di far rotta verso l’Asia orientale con un codazzo di imprenditori, pronti a firmare contratti preconcordati. Non ricordo un solo primo ministro britannico che abbia fatto altrettanto. Né un presidente francese. Non c’è paese più corporativista della Francia, eppure nessun presidente francese si sognerebbe mai di farsi vedere coinvolto in operazioni asservite a precisi interessi commerciali.


Le illusioni industriali tedesche sono schizzate alle stelle solo alcuni anni or sono, quando l’allora ministro dell’economia, Peter Altmaier, aveva promesso di incrementare la quota dell’industria nel prodotto interno lordo, al di là dell’attuale 20 percento, che è già il doppio della Francia e del Regno Unito. La pandemia e la guerra, però, sono intervenute a dissolvere quei miraggi. Ai miei occhi, i simboli stessi di quell’era sono le automobili a combustili fossili e l’impianto chimico di dieci chilometri quadrati della BASF, a Ludwigshafen, il più grande del pianeta.


Scholz e il suo partito vivono aggrappati a quell’era. Scholz si affida ai dati economici forniti da esperti quali Martin Brudermüller, il CEO della BASF. Quando, agli inizi di quest’anno, un gruppo di economisti aveva assicurato che un embargo del gas russo era perfettamente fattibile, Scholz si è precipitato alla televisione per accusarli di irresponsabilità. I suoi amici industriali gli avevano raccomandato di evitare a tutti i costi un embargo del gas. Allorchè Vladimir Putin ha preteso il pagamento in rubli per le forniture energetiche, subito Scholz ha annunciato che non avrebbe ceduto ai ricatti, per poi consentire alle aziende tedesche di ricorrere al trucco dei conti doppi presso la Gazprombank per aggirare l’ostacolo. Quando Gazprom ha fatto sapere che il gasdotto Nord Stream 1 non poteva essere riattivato per mancanza di una turbina rimasta bloccata in Canada, per via delle sanzioni, Scholz ha mosso mari e monti per sottrarre quella turbina alla lista dei materiali soggetti a sanzioni. Di recente, Scholz ha consentito a Cosco, l’operatore portuale cinese, di acquistare una quota del terminal portuale di Amburgo. E in questi giorni si dà da fare per aiutare un’azienda cinese ad acquistare una fabbrica di semiconduttori a Dortmund, nonostante le obiezioni sollevate dai servizi di sicurezza tedeschi.


Tuttavia, prima di gridare allo scandalo davanti al doppio gioco del cancelliere tedesco, occorre riconoscere che tutti questi esempi hanno qualcos’altro in comune. Le manovre di Scholz sono fallite, in quasi tutti i casi. L’embargo del gas è stato siglato. Il modello economico della BASF è giunto al capolinea. La Cina non rappresenta più un mercato interessante per la crescita tedesca. Molte industrie si stanno diversificando, allontanandosi dalla Cina. Come ci ricorda l’economista americano Brad Setser, le esportazioni della Germania verso la Cina hanno raggiunto il culmine negli anni 2009-2012, motivate dalla forte domanda di beni strumentali tedeschi. Da allora, peraltro, le esportazioni in Cina, come percentuale del PIL tedesco, si sono praticamente azzerate. La Germania, è vero, esporta in Cina molto di più in confronto agli altri paesi europei, e Scholz ci tiene a mettere in salvo quella fetta del settore. La Cina, però, non sarà il volano della crescita futura della Germania.


Oggi, in Germania, si assiste all’agonia di un modello economico ormai superato, quello fondato su energia a buon mercato e l’esportazione di macchinari industriali verso paesi terzi, come la Cina. La Germania dovrà diversificare la sua economia in una direzione che risulta ancora largamente sconosciuta a Scholz e ai suoi amici industriali. Pertanto, non vedo motivo di preoccupazione nel tentativo della Germania di forgiare un’alleanza strategica con la Cina, così com’è avvenuto in passato con la Russia. Temo invece, e a maggior ragione, che la Germania resti fossilizzata nel passato, incapace di affrontare il ventunesimo secolo, con il rischio di trascinare con sè nel baratro l’Europa intera.


Personalmente, vedo in Scholz una figura di transizione, assurto al potere per un errore elettorale. Ma adesso è qui, e ha davanti a sè altri tre anni di governo. Diciamo pure che la grande svolta epocale è ancora tutta da venire.

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