Commentary on Political Economy

Saturday 12 November 2022

 OPINIONI

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L’idea di progresso e la sinistra globale

In questi anni si è parlato moltissimo di sovranismo, forma contemporanea del populismo. E dei tanti interrogativi che questa offerta politica porta con sé. Assai meno si è discusso delle trasformazioni intervenute nella sinistra. Quasi dando per scontato che problemi e contraddizioni abbiano a che fare esclusivamente con la destra. Uno strabismo che non fa bene al dibattito.

Per «progressismo» si può intendere la forma più radicale di quella cultura sociopolitica diventata prevalente nella sinistra internazionale a partire dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine del socialismo reale. Nel corso degli anni, e soprattutto a seguito della presidenza Clinton, tale cultura ha preso piede non solo nelle élites dei partiti di sinistra, ma anche nei ceti intellettuali ed economici occidentali che hanno beneficiato maggiormente dei processi legati alla globalizzazione. Abbandonata l’idea di un superamento del capitalismo, il progressismo ha sposato un approccio riformista che lo ha reso capace di assumersi importanti responsabilità di governo. Questa metamorfosi ha però avuto i suoi risvolti problematici. Come si vede nella crescente difficoltà a tenere i contatti con i ceti popolari, che, in Italia ma non solo, guardano sempre più a destra.

È la centralità del cambiamento — visto come chiave per risolvere i problemi sociali e contrastare le spinte conservatrici — a caratterizzare il progressismo. Cambiamento promosso da due driver tra loro in relazione: la ricerca e l’innovazione in campo economico e i diritti individuali in campo sociale. L’orizzonte è quello della costruzione una società aperta: tanto nei suoi confini (con una predilezione verso una visione cosmopolita) quanto nei suoi riferimenti culturali (con l’insistenza sui valori della tolleranza e del pluralismo) e nei modi di vivere (con la sottolineatura della autodeterminazione morale del singolo individuo). All’idea di un cambiamento di sistema — tipica della sinistra del secolo scorso — il progressismo sostituisce l’idea di una continua trasformazione interna nella direzione di una maggiore libertà per tutti (a partire dalle donne). Dove la stessa uguaglianza — che Bobbio indicava come tratto distintivo della sinistra — viene ripensata in termini di accesso alle opportunità.

Il problema è che il progressismo tende a rigettare l’idea stessa di limite, visto solo come riduttore di possibilità. Lungo questa linea, esso si espone a posizioni radicali: un conto è la spinta inesauribile a superare gli equilibri esistenti; o la tensione verso un continuo miglioramento. Un altro conto è promuovere attivamente un mondo in cui non c’è più forma, legame, misura. E che non può che aumentare frammentazione, disgregazione, entropia. Come tutti i rimossi, il limite peraltro ritorna nella sua cattiva interpretazione. In fondo, il sovranismo — quando invoca la chiusura dei confini, quando stigmatizza lo straniero, quando ammette solo la famiglia tradizionale — altro non è che la reazione speculare al progressismo. Da questo snodo derivano alcune delle principali difficoltà in cui la sinistra si trova impelagata.

In primo luogo, un’idea di libertà individuale che fatica a combinarsi con la solidarietà. Il problema nasce nel momento in cui ci si dimentica che libertà e legame sono polarità in tensione che vanno sempre ridisegnate, ma che non possono essere disgiunte. La libertà esige di combattere tutte le forme di ingiustizia e oppressione. Ma non consiste nell’aspirazione a sciogliersi da tutti i legami. Il problema della libertà non è «non avere limiti», ma decidere quali relazioni (liberanti o oppressive) accettare, rifiutare o mettere al mondo. La responsabilità (e quindi il legame con l’altro e con il senso) non riduce la libertà, ma è la condizione per prendere forma. Che, come tale, non può che essere disegnata da limiti (per quanto porosi e transitabili).

In secondo luogo, la centratura sul cambiamento porta il progressismo — nato nella fase ascendente della globalizzazione — ad avere un’idea unilateralmente positiva del processo di innovazione, specificatamente di quella tecnologica. Va da sé che la tecnica, oltre a essere essenziale per una società avanzata, è una preziosa alleata per migliorare la condizioni di vita. Ma ciò non significa dimenticare che la tecnologia è un «farmaco» che mentre guarisce, intossica; mentre abilita, disabilita; mentre affascina, spaventa. Ambivalenza particolarmente evidente oggi quando la tecnologia, insieme ai suoi prodigiosi successi, pone gravi questioni in termini sociali e ambientali. Non a caso, sono i gruppi culturalmente e economicamente più arretrati che, sentendosi esclusi o minacciati, finiscono per cadere nelle braccia dei conservatori.

Infine, mentre propugna il ritorno a un rapporto più equilibrato con la natura — con l’attenzione al «bio», al «km 0», al «green» — in nome del superamento della visione antropocentrica che ha caratterizzato gli ultimi secoli, al tempo stesso il progressismo è assai meno restrittivo quando si parla di intervento tecnico sulla vita umana. L’autodeterminazione individuale diventa qui il principio di riferimento assoluto, col solo vincolo della possibilità tecnica.

Eppure, è proprio il limite — da intendersi non come chiusura ma come soglia che mette in relazione, che fa riflettere e che apre al suo fruttuoso superamento piuttosto che a una cancellazione — a costituire il cuore della questione della sostenibilità: in fondo, diventare sostenibili significa prendere atto che ogni sovranità (politica, economica, organizzativa, individuale) non può che essere «limitata» dalla relazione di interdipendenza con ciò che la circonda. È a partire da qui che la riflessione sulla sinistra dovrebbe, a mio parere, ricominciare.

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