Commentary on Political Economy

Tuesday 3 January 2023

 


I RAPPORTI CON PECHINO

Cina, ci conviene o no che si schianti? Risposte complicate a una domanda (troppo) semplice

di Gianluca Mercuri

Cina, ci conviene o no che si schianti? Risposte complicate a una domanda (troppo) semplice

Vogliamo davvero che la Cina fallisca? È giusto, desiderabile e compatibile con gli interessi dell’Occidente? Tra le tante domande che propone il nuovo anno, queste possono essere considerate le più urgenti, o quelle cruciali. Con la Russia, in effetti, il rapporto è terribilmente più chiaro: sappiamo che, almeno finché la reggerà Putin, non è un partner affidabile in nessuna sfera, dalla sicurezza all’energia. Sappiamo che va contenuta e contrastata, e lo sappiamo a tal punto da armare l’Ucraina aggredita e da avere stabilito l’inaccettabilità della sua fine. Sappiamo anche che la Russia sarà sempre lì, Putin o non Putin, con le sue pulsioni, le sue materie prime, il suo mercato, la sua cultura, e che prima o poi ricomincerà la fatica di una convivenza ineludibile. Ma intanto, sappiamo che va fermata.

Con la Cina il discorso è diverso, e per più di un motivo. L’intreccio economico con il gigante asiatico è molto più vitale di quello con la Russia, e infatti l’impatto di sanzioni analoghe a quelle imposte a Mosca sarebbe molto più devastante sulle nostre economie. Da questo punto di vista, che la Cina smetta di crescere o entri addirittura in recessione è un’eventualità che gran parte degli osservatori occidentali considera con allarme. Come spiega Gideon Rachman, che sulla domanda iniziale costruisce la sua ultima analisi sul FT, «coloro che ritengono che il continuo successo economico cinese sia nell’interesse dell’Occidente hanno argomentazioni plausibili. In primo luogo, la Cina è una parte enorme dell’economia mondiale. Se si vuole che la Cina entri in recessione, si è molto vicini a volere che anche il mondo entri in recessione. E se la Cina dovesse crollare, ad esempio se il suo settore immobiliare si squagliasse, le conseguenze si ripercuoterebbero sul sistema finanziario globale». Il settore immobiliare, per capirsi, vale il 30% del Pil cinese.

Allo stesso tempo, in Occidente abbiamo preso atto dell’ostilità cinese fino al punto da renderla esplicita, senza più nasconderla tra le pieghe del linguaggio diplomatico. Dopo decenni di ambiguità scelta, l’America si è spinta come mai prima nel chiarire, attraverso il suo presidente, che un’aggressione a Taiwan non sarebbe tollerata. E perfino l’Unione europea, che — vuoi per debolezza politico-economica vuoi per le sue divisioni — all’ambiguità parrebbe condannata, è arrivata a definire esplicitamente la Cina un «rivale sistemico». E quando un interlocutore viene avvertito ed etichettato in termini così perentori, l’auspicio che si indebolisca fino a fallire sarebbe in teoria automatico.

Come sottolinea il grande giornalista inglese, «il fatto che questo dibattito sia in corso la dice lunga sulla confusione che regna nelle capitali occidentali. In linea di massima, due modelli di ordine mondiale si stanno dando battaglia nelle menti dei politici occidentali: un vecchio modello basato sulla globalizzazione e un nuovo modello basato sulla competizione tra grandi potenze».

Il vecchio modello aveva un pilastro a Berlino — la convinzione tedesca che un rapporto commerciale reciprocamente proficuo avrebbe favorito un’evoluzione moderata sia in Cina sia in Russia — e un altro a Pechino — il concetto tipicamente cinese della «cooperazione win-win», secondo cui stabilità e crescita convengono a tutti e favoriscono collaborazione su altri fronti comuni come quello ambientale. L’unica differenza — teorica, e non priva di una certa ipocrisia — era che dal versante tedesco si sperava che una Cina più sazia fosse anche meno repressiva e aggressiva, mentre il versante cinese ha sempre escluso qualsiasi evoluzione interna che scalfisse il dogma della centralità del Partito comunista, e dunque il sistema totalitario.

Il nuovo modello, quello basato sulla competizione, prende atto dell’esito contrario all’auspicio tedesco, e cioè del fatto che «una Cina più ricca si è purtroppo rivelata più minacciosa», investendo quantità enormi di denaro nel riarmo e ponendo le basi di un espansionismo territoriale che allarma tutto il quadro asiatico e pacifico.

Il fatto è che i due punti di vista sono entrambi sensati: la stabilità mondiale sarebbe minacciata sia da una Cina che «fallisca» economicamente, sia da una Cina il cui successo economico alimenti il suo nazionalismo assertivo. Per uscire dal dilemma, secondo Rachman, bisogna allora che gli occidentali smettano di chiedersi «vogliamo che la Cina abbia successo o fallisca?» e comincino semmai a domandarsi «come possiamo gestire la continua ascesa della Cina?». Con questo corollario: «Piuttosto che cercare di rendere la Cina più povera o di ostacolare il suo sviluppo, la politica occidentale dovrebbe concentrarsi sull’ambiente internazionale, nel quale sta emergendo una Cina più ricca e più potente. L’obiettivo dovrebbe essere quello di plasmare un ordine mondiale che renda meno attraente per la Cina perseguire politiche aggressive».

Applicare tale strategia è chiaramente complicato: gli Stati Uniti si sono mossi bene sul piano della sicurezza, stringendo i bulloni del network militare con Giappone, India e Australia, e sul piano tecnologico, contrastando la conquista cinese del primato in quel settore. Il loro, ma sopratutto nostro, problema è che qui cominciano le divergenze con i partner europei, che hanno molte più difficoltà a «disaccoppiarsi» economicamente dalla Cina, pur catalogata come «rivale sistemico».

L’altro ostacolo è dato dalla natura dell’interlocutore. Che (ricordarlo è sempre utile) per dimensioni, durata, numero di vittime nel corso dei decenni, radicamento, capillarità dell’oppressione dei suoi cittadini, ricatto cui sottopone i partner commerciali, indifferenza totale per i diritti umani e aggressività sia ideologica sia militare, va considerato il regime più spaventoso della storia. Se fino al riformismo denghiano, che aveva avuto il merito di sottrarre alla fame centinaia di milioni di persone, questo giudizio poteva essere eccessivo, il revanscismo sciovinista e il culto di sé esasperati da Xi Jinping hanno eliminato ogni dubbio. Come ha scritto Andrew Small del German Marshall Fund in un’analisi pubblicata dall’Ispi, «la direzione indicata da Xi dopo il XX Congresso del Partito è molto chiara: la Cina è ormai entrata in un periodo di lotta non solo con gli Stati Uniti, ma anche e soprattutto con le democrazie liberali. L’obiettivo di Pechino è dividerle».

Questa visione, inevitabilmente, «non comporterà alcuna deviazione dalla spinta di Xi per una serie di relazioni economiche internazionali che approfondiscano la dipendenza di altri paesi dalla Cina, facendo di tale dipendenza un’arma e riducendo al contempo la dipendenza cinese dal resto del mondo. Sebbene tutti i leader europei affermino di “non voler vedere il disaccoppiamento”, questo è esattamente l’obiettivo perseguito dalla Cina, tranne in alcuni ambiti ben determinati in cui ravvisa esigenze tecnologiche molto specifiche ed imprescindibili o vantaggi politici che può sfruttar».

Non bastasse, c’è la spada di Damocle di una nuova guerra, perché «nel frattempo, la situazione Cina-Taiwan entrerà in una fase ancora più rischiosa nel periodo successivo al 2023, in particolare in vista delle prossime elezioni taiwanesi (2024); di conseguenza, diventerà ancora più importante che l’Europa faccia la sua parte per contribuire a ribaltare i calcoli cinesi e a contrastare un’eventuale decisione di muovere guerra». Non a caso, l’ultimo G20 di Bali, il mese scorso, è stato definito il primo vertice della prossima Guerra Fredda, o di quella già in corso. Ha spiegato Federico Rampini nella sua newsletter Global (vedi sopra), che lo scopo dell’incontro tra Biden è Xi era «to agree to disagree, cioè trovare un accordo sul disaccordo. Pur riconoscendo la rivalità sistemica tra le due superpotenze, si tratta di raggiungere un modus vivendi, concordare delle regole che impediscano all’antagonismo di degenerare in conflitto. Fra i terreni dove la cooperazione è obbligatoria ci sono due temi globali, il riscaldamento climatico e le pandemie. Xi al G20 è parso consenziente, in linea di principio. Salvo poi riaprire le frontiere ed eliminare le restrizioni lesinando le informazioni al resto del mondo. Attento solo alla gestione della sua immagine interna, con nessun riguardo verso la comunità internazionale».

In questo quadro, risulta ancora più cruciale il richiamo di Andrew Small al ruolo dell’Europa, che «rischia di essere perdente su più fronti e di aumentare la propria dipendenza dalla Cina, indebolendo la propria influenza sul paese asiatico non solo per l’incapacità di collaborare efficacemente con altri partner o anche di essere coesi a livello di Ue, ma anche per l’incapacità di plasmare o influenzare le principali decisioni degli Stati Uniti su questioni che vanno dal controllo della tecnologia ai sussidi industriali, come risultato della sua minor attenzione a queste tematiche. L’Europa spera sempre di poter relegare la questione cinese dal livello di “urgente” a “importante”, data la portata delle altre sfide che si trova ad affrontare. Nel 2023 non sarà possibile farlo».

Tornando alla domanda iniziale, dunque, se cioè un declino economico cinese sia davvero auspicabile dati i contraccolpi che avrebbe su di noi, la risposta resta difficile, e quella di Rachman è la più plausibile: più che provare a stoppare la crescita cinese, bisogna evitare che sia usata in modo aggressivo, il che sarebbe una politica che «ha il merito di essere difendibile e fattibile». Intanto, quello che certamente si può auspicare è che la Storia ci riservi uno dei suoi momenti magici, con il fallimento sul Covid che inneschi la rivolta incontrollabile di una popolazione tradita anche nel minimo sindacale che dovrebbe assicurare un regime, la sicurezza personale e quella dei propri cari. Sperarlo è a costo zero, e — soprattutto — aiuta a mantenere saldi certi parametri etici.

Questo articolo è stato pubblicato sulla newsletter Il punto del Corriere della Sera.

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