Commentary on Political Economy

Thursday 26 January 2023

Perché i tank Leopard e Abrams non bastano all’Ucraina (e cosa non abbiamo capito)

La decisione presa da Stati Uniti e Germania di fornire carriarmati all’Ucraina è positiva perché – ancora una volta – delude la speranza di Putin di dividere l’Occidente e ridurre il suo sostegno a Kiev. Però i tank in arrivo sono poche decine contro le migliaia di tank russi; trasportano un bagaglio di problemi (manutenzione, carburante, munizioni); lasciano irrisolte molte altre debolezze dell’esercito ucraino come i vistosi buchi nella difesa aerea. Inoltre le reticenze di Berlino continuano a rivelare un ritardo di fondo: culturale oltre che politico.

Molti tedeschi continuano a credere alla favola per cui la prima guerra fredda 1947-1989 fu vinta dalla cooperazione con Mosca, anziché dalla determinazione di Ronald Reagan. Perfino gli Stati Uniti hanno creduto a tal punto di vivere in un’era di pace, che oggi hanno un’industria della difesa sottodimensionata, e spesso inefficiente. Anche l’Italia avrebbe bisogno di un sano confronto con il «principio di realtà», invece dei dibattiti tragicomici su Zelensky al festival di Sanremo.

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Sul via libera ai tank Abrams americani e ai Leopard 2 tedeschi viene in mente una celebre battuta attribuita da alcune fonti a Winston Churchill, il premier britannico protagonista della resistenza contro i nazifascismi nella seconda guerra mondiale (una versione alternativa l’attribuisce a un premier israeliano, Abba Eban). «Potete essere sicuri – avrebbe detto Churchill – che gli americani faranno sempre la cosa giusta, dopo aver provato tutte le altre». In questo caso la battuta si può estendere alla Nato o all’Occidente. È dall’inizio di questo conflitto che il nostro appoggio all’Ucraina procede con il contagocce, tra resistenze e ritardi, e ogni decisione arriva dopo estenuanti esitazioni. Un giudizio severo sulla vicenda dei Leopard lo dà The Economist ricordandoci che la richieste di carriarmati da parte di Zelensky – per poter resistere alle enormi colonne blindate russe – arrivò al settimo giorno dell’invasione, cioè undici mesi fa. Era la cosa giusta da fare subito, ci abbiamo messo quasi un anno per ammetterlo.

La giustificazione principale per le nostre esitazioni – anche da parte di Joe Biden – è sempre stata quella di non provocare Putin, di non fare nulla che legittimi la sua narrazione di uno scontro diretto Russia-Nato. Per questo Biden continua a costringere gli ucraini a difendersi con un braccio legato dietro alla schiena, per esempio negandogli missili adeguati a colpire le basi di lancio da cui partono i missili russi.

Ma Putin quella narrazione sull’aggressione della Nato l’ha usata dal 2007 ed è con quella che ha giustificato l’aggressione di una nazione sovrana e indipendente fin dal 2008 (Georgie) e dal 2014 (Crimea). Qualsiasi forma di aiuto occidentale all’Ucraina, per la propaganda di Mosca è la conferma del teorema. I tank non cambiano nulla, Putin ha già accusato cento volte la Nato di combattere direttamente contro la Russia. Per lui è anche un comodo alibi verso l’opinione pubblica russa: per giustificare i rovesci subiti dalle sue forze armate, è utile sostenere che stanno combattendo contro un nemico molto più grande.

Nella realtà Putin sa bene la differenza fondamentale che c’è tra fornire armi ed entrare direttamente in un conflitto. Negli anni 1965-75, durante la guerra del Vietnam, l’Unione sovietica e la Cina di Mao fornirono la stragrande maggioranza delle armi, l’addestramento e l’intelligence ai comunisti del Nord-Vietnam. Non per questo si può sostenere che l’America stesse combattendo contro Urss e Cina. Se allora la propaganda americana avesse usato questo argomento per giustificare le proprie difficoltà, di sicuro non sarebbe stata presa sul serio dai veterani dello «pseudo-pacifismo» che oggi contestano Zelensky a Sanremo. Gli stessi che invece accettano la propaganda di Putin quando descrive gli aiuti della Nato come una partecipazione diretta alla guerra.


Quegli aiuti arriveranno – pochi e tardi – con un carico di problemi. Le truppe ucraine vanno addestrate all’uso di tank diversi dai loro. Questi mezzi blindati hanno bisogno di essere riforniti costantemente di carburante, pezzi di ricambio, e soprattutto munizioni. Qui si tocca un tasto dolente. La produzione di munizioni è uno specchio del disarmo avvenuto per decenni in Occidente. Inclusi gli Stati Uniti, come documenta un recente rapporto del Congresso di Washington. Alla fine della seconda guerra mondiale gli Usa avevano 85 fabbriche di munizioni. Oggi ne sono rimaste sei, che spesso operano con macchinari e impianti ultra-ottantenni. La Russia pur essendo molto più povera degli Stati Uniti, ha però una «economia di guerra» dove la produzione bellica riceve una porzione enorme delle risorse nazionali. E può avvalersi di forniture militari da parte di altre «economie di guerra» come Iran e Corea del Nord (quest’ultima essendo con ogni probabilità anche il canale clandestino attraverso cui la Cina aiuta Putin).

L’America ha smantellato o ridimensionato la sua industria militare soprattutto dopo la fine della prima guerra fredda, convinta di potersi godere finlmente i «dividendi della pace». Né vanno sottovalutate le inefficienze interne al Pentagono e al complesso militar-industriale. A parte qualche caso sporadico di corruzione (sì, quella non esiste solo a Kiev), i generali Usa si sono spesso innamorati delle loro «cattedrali», grandi opere della tecnologia bellica come le costosissime portaerei o i cacciabombardieri F-35, relegando a un ruolo minore le nuove tecnologie ultraleggere come i droni, o le produzioni banali e per nulla glamour come le munizioni.

Un recente esercizio virtuale di wargames condotto dal Center for Strategic & International Studies ha dimostrato che nel caso la Cina invadesse Taiwan, gli Stati Uniti esaurirebbero in meno di una settimana le munizioni essenziali per aiutare l’isola a difendersi. La Cina sta investendo nella sua capacità di produrre munizioni cinque volte più degli Stati Uniti. Se nella seconda guerra mondiale fu proprio la capacità produttiva della sua industria l’arma decisiva dell’America, ora questo vantaggio rischia di non esistere più. La deindustrializzazione che ha colpito gli Stati Uniti da almeno tre decenni non ha risparmiato il settore della difesa: alcune sue produzioni sono dipendenti da materiali e componenti made in China, proprio come i telefonini o le auto elettriche. L’America conserva – per ora – una superiorità tecnologica, spesso affidata ai privati, e la si è vista all’opera con il ruolo dei satelliti Starlink (Elon Musk) o di Microsoft nell’aiutare l’Ucraina. Ma poiché l’aggressione russa usa tattiche e tecniche che evocano la prima e la seconda guerra mondiale, il software non basta, ci vogliono gli scarponi sul terreno, i tank, le munizioni.

La Germania, e l’Europa, sono un caso a parte in quanto a cultura del disarmo. Dietro le reticenze del cancelliere Olaf Scholz sui Leopard c’è una sorta di visione alternativa della storia. Molti tedeschi si sono costruiti una rappresentazione confortante sulla fine della guerra fredda, la caduta del Muro di Berlino, la dissoluzione dell’Urss. Gran parte del merito sarebbe loro: delle loro politiche di cooperazione e commercio che avrebbero ammorbidito il blocco comunista. Il ruolo di Ronald Reagan e della sua fermezza, o di papa Wojtyla e del suo sostegno alla rivolta polacca, viene opportunamente oscurato in questa ricostruzione. Gran parte del merito andrebbe invece ai leader socialdemocratici come Willy Brandt, artefice della Ostpolitik o «politica orientale» (la cui carriera politica fu stroncata perché i suoi uffici pullulavano di spie sovietiche). Gerhard Schroeder, anche lui ex cancelliere socialdemocratico, ha potuto farsi assumere da Putin come amministratore di un ente energetico russo in nome della «pace e fratellanza» tra i popoli. La stessa democristiana Angela Merkel ha sostenuto fino all’ultimo Nord Stream 2, il gasdotto con cui Putin voleva perpetuare la dipendenza tedesco-europea dal gas russo. L’idea che la Russia sarebbe diventata più buona a furia di commerciare con noi ha anestetizzato ogni lucidità della classe dirigente tedesca. Scholz fatica ancora oggi a liberarsene, lo fa lentamente e puntando i piedi. 

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