Commentary on Political Economy

Thursday 5 January 2023

 

Xi Jinping educa i cinesi alla paranoia, il prezzo lo pagheremo noi

C’è ancora qualche possibilità che la svolta cinese sul Covid abbia delle ricadute positive nel 2023. L’economia mondiale potrebbe finalmente liberarsi di quella pesante zavorra che era la bassa crescita della Cina: trattandosi della seconda economia mondiale, la sua frenata ci rendeva tutti un po’ meno dinamici. Purtroppo, ogni buona notizia ha il suo contrappeso: se riparte la crescita a Pechino, avremo di nuovo un effetto inflazionistico sui prezzi delle materie prime, energia in testa.

Ma guardando invece alle conseguenze di lungo periodo, l’Occidente pagherà un prezzo per l’indottrinamento paranoico a cui Xi Jinping sottopone la sua popolazione. Le reazioni assurde dei media governativi cinesi contro le modestissime misure di prevenzione prese dai governi occidentali – i test sui viaggiatori in arrivo dalla Cina – fanno parte di un fenomeno ormai consolidato che consiste nel descrivere un mondo popolato di nemici, impegnati a danneggiare e indebolire l’ascesa del colosso asiatico. Inculcare a un popolo la paranoia, il complesso di persecuzione, il rancore per le presunte discriminazioni, ha sempre delle conseguenze: lo si è visto in passato in alcuni Paesi islamici, e naturalmente in Russia.

La scommessa degli ottimisti – e del regime di Pechino – è che finalmente l’economia cinese possa riprendersi, così come ci fu un poderoso rimbalzo di tutte le economie occidentali quando noi uscimmo dai nostri lockdown. Accettare un costo in termini di vittime, in cambio di prospettive di crescita e benessere per la maggioranza: in fondo fu questo fin dall’inizio il «patto tragico» che molti politici dovettero fare anche nelle nostre liberaldemocrazie. Con esiti differenziati. All’interno degli Stati Uniti, per esempio, i governatori repubblicani (Texas, Florida) hanno fin dall’inizio accettato una dose maggiore di rischio sanitario pur di ridurre i costi socio-economici delle restrizioni. In Europa la Svezia scelse il modello «repubblicano». In Asia ci furono ricette più spostate verso un alto livello di restrizione (ancorché concordate e praticate attraverso il consenso sociale, non imposte dall’alto: Giappone, Corea del Sud, Taiwan), altre più liberiste come l’India. I bilanci sono complessi, ad essere onesti ci vorranno decenni per avere un’idea chiara degli effetti di quelle misure.

La Cina è il caso estremo per eccellenza, per quasi tre anni ha rappresentato il polo delle massime restrizioni; ora si converte rapidamente alla normalità ma effettua questa transizione post-lockdown in modo molto più veloce e repentino di come facemmo noi. Corre dei rischi: il primo test arriva tra poco con il Capodanno lunare, la più importante festività dell’anno, un periodo in cui tradizionalmente diverse centinaia di milioni di persone si mettono in viaggio (la maggioranza sui mezzi pubblici: aerei treni autobus) per ricongiungersi con le famiglie. Quel movimento massiccio di persone potrebbe generare un enorme contagio e provocare dei contraccolpi sulla stessa liberalizzazione.

I Paesi occidentali tentano di proteggersi con misure blande, legittime e doverose. La reazione inviperita dei media cinesi ha dell’assurdo: si scagliano contro di noi perché richiediamo gli stessi tamponi che il governo di Pechino ha sempre imposto a chi viaggiava in Cina. Mentre non ci sogniamo di sbattere in quarantena lunga e dura i positivi al test, come invece la Cina ha sempre fatto con noi. Questa reazione furiosa è al tempo stesso inaccettabile, e largamente prevedibile. Da anni Xi ha ormai abbracciato il linguaggio del complotto ostile, l’idea che gli occidentali fanno e faranno di tutto per bloccare la giusta ascesa della Repubblica Popolare. Il suo controllo sui media gli consente di capovolgere la realtà, di nascondere ai cinesi che il trattamento imposto dai Paesi occidentali ai loro viaggiatori è molto più benigno e benevolo di ciò che loro hanno fatto e continuano a fare ai nostri viaggiatori.

Il punto più grave è un altro. Per aver vissuto in Cina dal 2004 al 2009, ho il preciso ricordo di un’epoca in cui la narrazione dei media governativi era più amichevole nei nostri confronti. All’apice del boom economico cinese, la propaganda abbracciava una visione positiva della globalizzazione e quindi anche dell’Occidente, la cui apertura era vista come una grande opportunità per i cinesi. Fin dai tempi di Deng Xiaoping, quindi a partire dagli anni Ottanta, i giovani cinesi venivano incoraggiati a studiare nelle nostre università per avere accesso a un livello superiore di conoscenze. Tutto questo faceva parte di una visione ottimista del futuro e dei rapporti fra la Cina, l’America, l’Europa.

Da anni invece prevale nella propaganda un discorso diverso, sulle cattive intenzioni di un Occidente determinato a infliggere nuove umiliazioni alla Cina (i riferimenti sono frequenti al «secolo delle umiliazioni», l’Ottocento segnato dalle guerre dell’oppio). Questo ribaltamento di prospettive è pericoloso. Spesso nella storia i regimi autoritari preparano il terreno per azioni aggressive, cominciando a indottrinare la propria popolazione sulla malvagità dell’avversario.

I governi occidentali non dovrebbero assistere passivamente a queste bordate di propaganda. A cominciare dall’ultimo casus belli, cioè i test anti-Covid sui viaggiatori, Bruxelles e le capitali europee, così come Washington, dovrebbero esigere che Pechino smetta di lanciarci accuse infondate, e dia una versione dei fatti meno offensiva nei nostri confronti. Subire senza reagire le bugie di una propaganda ostile, è imprudente.

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