Commentary on Political Economy

Friday 10 March 2023

 

Il terribile segreto di Xi Jinping che oggi succede a se stesso

Oggi è una data storica, in questo venerdì 10 marzo 2023 Xi Jinping … succede a se stesso. È il giorno in cui formalmente inaugura il terzo mandato come presidente della Repubblica Popolare cinese. Un fatto senza precedenti: Xi ha dovuto far modificare la Costituzione e abolire il limite massimo di due mandati che si applicò ai suoi predecessori. In un certo senso neppure il fondatore della Repubblica Popolare, Mao Zedong, ebbe un regno così lungo come quello che Xi si è conquistato. Dalla vittoria della rivoluzione comunista nel 1949 fino alla morte nel 1976, Mao ebbe dei periodi di emarginazione dal potere reale (di cui si vendicò con ferocia).

Ma il terzo mandato che conta di più per Xi Jinping non è la presidenza della Repubblica, carica per lo più formale e di rappresentanza. Ben più importante è l’altro terzo mandato che lui si è assicurato come segretario del partito comunista, già al congresso di ottobre. In questa distinzione la continuità con Mao pesa. Il partito in Cina conta più dello Stato, il leader del partito è la vera autorità, anche se a scanso di equivoci Xi ha preferito cumulare la carica di presidente. Il primato del partito comunista, dottrina consacrata da Lenin e Stalin nell’Unione sovietica, è fondamentale nel pensiero di Xi e anche nella sua storia personale. Il partito comanda su tutto: sulle istituzioni, dal Parlamento alla giustizia, e anche nell’economia. Xi ha rilanciato il ruolo dei politici anche nel mondo delle aziende.

Forse ci fu un periodo in cui la Cina poteva imboccare una strada diversa, un percorso riformista, prima che Xi imponesse il ritorno all’ortodossia? Forse quel periodo si chiuse con una brutale lotta di potere, il segreto più scabroso dietro l’ascesa di Xi. Una storia di intrighi che oggi è utile ricordare, perché fu determinante nell’imporre alla Cina il suo leader attuale e la fisionomia che il paese ha oggi.

Mi riferisco al “caso” Bo Xilai, preludio assai movimentato dell’ascesa di Xi Jinping. Oggi Bo è sepolto vivo in un carcereAvrebbe potuto benissimo trovarsi lui al posto che occupa Xi. I due personaggi sono quasi dei gemelli, tante sono le affinità biografiche e ideologiche che li uniscono. Tutti e due sono all’origine dei “principi” alla corte di Mao, in quanto figli di leader storici della rivoluzione. Il padre dell’attuale presidente era Xi Zhongxun (nel costume cinese il cognome precede il nome, ed è quello che si tramanda di padre in figlio), il padre del rivale sconfitto era Bo Yibo. Tutti e due facevano parte della prima leva di leader comunisti, cresciuta attorno a Mao. Ambedue caddero in disgrazia durante la Rivoluzione culturale, furono perseguitati dalle Guardie rosse scatenate da Mao. Le umiliazioni di quel periodo si estesero dai padri ai figli. Poi vennero riabilitati e le loro vicende servirono da trampolino di lancio per le carriere politiche dei due figli.

La grande crisi del 2008 scoppia in America quando Bo Xilai è capo del partito comunista a Chongqing. Oltre a essere la più grande metropoli del paese con oltre 30 milioni di abitanti, Chongqing è una città importante per molteplici ragioni: storiche, perché fu la capitale provvisoria durante l’invasione giapponese; economiche, perché è il cuore industriale della Cina interna, in contrapposizione con le fasce costiere dove ebbe inizio la transizione al capitalismo.

Bo Xilai accresce la sua visibilità in una fase in cui la Cina è scossa da scandali finanziari, casi di corruzione, che possono indebolire la legittimità del partito. Come leader della più grande metropoli si mette in mostra con delle politiche che si possono definire “populiste”: si schiera dalla parte degli operai, dei contadini, dei migranti interni; lancia programmi di edilizia popolare; frena il capitalismo privato per privilegiare le aziende di Stato. Vuole prevenire la crisi con una svolta a sinistra. Diventa rapidamente un idolo per la corrente neo-maoista. Lui stesso appoggia un ritorno al culto di Mao. Però gestisce la propria immagine con tecniche di marketing occidentali, come dimostra la sua luna di miele con i giornalisti, cinesi e stranieri. Un importante magazine di Hong Kong, Asia Weekly, gli dedica la sua copertina del febbraio 2009 e celebra un “Modello Chongqing”, al quale attribuisce la capacità di «trainare la Cina fuori dalla crisi».

La tv americana Cnn lo indica come «il successore in pectore di Hu Jintao» (allora presidente della Repubblica e segretario del partito). Il New York Times gli attribuisce il merito di avere «portato la speranza a Chongqing». L’ex segretario di Stato Henry Kissinger, tuttora stimato dai leader cinesi per il suo ruolo nel disgelo fra le superpotenze che risale al 1972, incontra Bo Xilai quando è ancora sulla cresta dell’onda nel 2011 e ne parla in termini estatici: «Pare che quei neolaureati cinesi che dieci anni fa sognavano di essere assunti dalla Goldman Sachs, ora vogliono lavorare nel governo con Bo Xilai».

Mentre coltiva i favori dell’establishment globalista, però, Bo a casa propria usa metodi comunisti al 100%. Da genuino populista intuisce che uno dei terreni cruciali per conquistare consensi è la lotta alla corruzione. La conduce a modo suo, con metodi spietati, usando le forze di polizia di Chongqing come un’armata personale. Se è vero che in tutta la Cina mancano le protezioni degli imputati tipiche di uno Stato di diritto, nella Chongqing di Bo la giustizia viene applicata con metodi ancor più brutali. Arresti, processi sommari, condanne esemplari e durissime (anche a morte) sono all’ordine del giorno sotto il suo regno. Lui colpisce di sicuro tanti veri corrotti, ma al tempo stesso manovra questa campagna moralizzatrice come una purga maoista, per fare terra bruciata attorno a sé, neutralizza gli avversari politici e chiunque osi resistere alla sua occupazione del potere.

L’obiettivo è proclamato: Bo vuole dare la scalata al potere nazionale. A Pechino i suoi metodi creano allarme. Da un lato c’è la paura sincera che Bo sia un estremista, in grado di riportare la Cina agli eccessi della Rivoluzione culturale maoista. I toni usati dai neo-maoisti giustificano quei timori. Un noto esponente dell’ala sinistra nelle forze armate, l’ammiraglio Zhang Zhaozhong, invoca una purga contro «i traditori della razza Han», i venduti al capitalismo americano. D’altro lato a Pechino i grandi corrotti tremano. È proprio di quel periodo una serie di rivelazioni e fughe di notizie pilotate verso i media occidentali, sull’inaudita ricchezza accumulata da alcune “famiglie regnanti”, per esempio i miliardi in partecipazioni azionarie possedute dai parenti dell’allora premier Wen Jiabao.

Nelle oscure manovre all’interno della nomenclatura, alla fine prevale la stella di Xi Jinping. Anche lui “principe ereditario”, ma con una storia un po’ più discreta, una scalata al potere meno fracassante. Xi sembra un uomo di mediazione, all’insegna della continuità. Il segnale che la lotta tra fazioni si risolve in suo favore, arriva all’inizio del 2012 quando un superpoliziotto di Chongqing, Wang Lijun, fa una clamorosa fuga dentro il consolato degli Stati Uniti e chiede asilo. Racconta agli americani ogni sorta di nefandezze di cui Bo si è macchiato. Accusa la moglie di Bo, Gu Kailai, di avere avvelenato il cittadino inglese Neil Heywood (forse il suo amante) nell’hotel Lucky Holiday di Chongqing. Gli americani non sanno che farsene di costui, non vogliono fare uno sgarbo al governo di Pechino, e non capiscono di essere i testimoni involontari di una feroce resa dei conti tra gli aspiranti al trono. Dopo quella fuga infamante dentro il consolato americano – e la “restituzione” del capo della polizia alle autorità locali da parte della diplomazia Usa – il destino di Bo è segnato. Caduta in disgrazia, arresto, processo, carcere a vita.

La vera sorpresa però deve ancora arrivare. Xi Jinping, il comunista “grigio e ordinario” di cui gli altri si fidavano, è stato il più abile dei due. Ma per molti aspetti la pensa come Bo Xilai. Gli occidentali ci metteranno alcuni anni a capirlo, perché non getta la maschera subito. Dopo la sua consacrazione al vertice nel 2012, Xi Jinping un pezzo alla volta realizza i due obiettivi principali del rivale sconfitto: una spietata guerra alla corruzione su scala nazionale; e una svolta “neo-maoista” nella politica economica, con il graduale ritorno di centralità delle grandi imprese di Stato a scapito dei capitalisti privati. Il cerchio si chiude, il “ritorno a Mao” è la copertura ideologica che maschera cose diverse: un linguaggio più populista per venire incontro alle tensioni sociali; la vittoria della super-lobby delle aziende di Stato contro la constituency pur potente del capitalismo privato; una revisione critica delle dottrine economiche liberiste accelerata dalla crisi americana.

Xi Jinping ha operato un riequilibrio a favore del dirigismo pubblico, ma non ha alterato in modo sostanziale il modello cinese: che è sempre stato di “economia mista”. Perfino quando dominava l’ala destra del partito comunista, mercatista e filo-capitalista, cioè sotto Deng Xiaoping e poi Jiang Zemin, la Repubblica Popolare non abbracciò mai le terapie d’urto applicate nella Russia post-comunista di Boris Eltsin con le privatizzazioni a oltranza. Pechino mantenne sempre una schiera di aziende pubbliche molto grosse; non sempre efficienti, sorrette da aiuti statali di ogni sorta, in particolare il credito agevolato da parte delle banche (anch’esse pubbliche), l’accesso privilegiato ai terreni, alle materie prime e alle forniture energetiche.

La Cina inoltre non ha mai aperto il suo mercato come gli occidentali si aspettavano: né alle importazioni, né agli investimenti stranieri. Sulle importazioni di molti prodotti stranieri ha mantenuto dazi elevati, ben prima che Trump intervenisse con i suoi. Sugli investimenti stranieri è stata selettiva. In certi settori li ha accolti a braccia aperte per dotarsi di un know how che le manca: per esempio la finanza, e infatti l’idillio tra Wall Street e la Cina ha resistito agli anni di Trump. Ma la Cina si è ben guardata dall’aprire del tutto le frontiere ai movimenti di capitali, né ha inseguito le privatizzazioni bancarie che consigliavano gli esperti occidentali.

In altri settori, definiti “strategici” (e che includono anche l’automobile) ha imposto alle multinazionali estere dei partner locali e l’obbligo di rivelargli segreti industriali. In questo sistema di economia mista, con un intervento sempre energico dello Stato, oggi i dirigenti comunisti cinesi vedono il segreto del loro successo: il socialismo cinese è vivo e vegeto. Bo Xilai, oggi dimenticato da tutti e condannato a finire i suoi giorni dietro le sbarre, aveva già indicato la strada che Xi ha finito per seguire. Lo scontro di potere che si concluse 11 anni fa aveva opposto due varianti di questo ritorno al socialismo. Le correnti più moderate o liberali del partito, che pure sono esistite, avevano già perso.

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