Commentary on Political Economy

Sunday 16 April 2023

 

Tappeti rossi a Pechino

Il leader cinese Xi Jinping vive giorni felici. Dopo quasi tre anni di lockdown, durante i quali non riceveva, ora si è formata una lunga fila davanti alla sua porta. Al momento, in visita c’è il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva. In parallelo, la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock incontra il team della politica estera cinese. Nelle settimane e nei mesi scorsi, a rendere omaggio al segretario del Partito comunista e presidente della Cina Popolare sono stati, tra gli altri, il cancelliere della Germania Olaf Scholz, il premier spagnolo Pedro Sánchez, il presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Poi, a Pechino sono arrivati, assieme, i ministri degli Esteri di Iran e Arabia Saudita; seguiti da una delegazione di talebani afghani nell’antica città di Tunxi. Qualche giorno fa, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue. E naturalmente c’è stata l’iperbolica tre giorni di Emmanuel Macron sul tappeto rosso di Xi. Bussate e probabilmente vi sarà aperto.

Dal punto di vista del visitatore, ognuno ha i suoi obiettivi, più o meno confusi. Più interessante è il punto di vista del leader cinese, che sembra invece piuttosto chiaro. L’ha espresso accomiatandosi dall’amico Vladimir Putin a conclusione dei loro lunghi incontri di marzo a Mosca: una frase che, da sola, racchiude analisi del mondo e obiettivi della Cina Rossa.

«In questo momento — ha detto Xi a un consenziente Putin — ci sono cambiamenti del tipo che non abbiamo visto per cento anni; e noi siamo coloro che, assieme, guidano questi cambiamenti». Esuberante, è stato notato. Nella sua lettura di quanto sta accadendo, il mondo governato per lo più secondo regole di libertà, diritti umani, mercati liberi e certezza del diritto — ciò che egli chiama egemonia dell’Occidente — vive un declino terminale. Sarà sostituito — è la sua intenzione — da un’egemonia fondata sui valori cinesi e persino putiniani: nessuna libertà civile o economica; rapporti tra Paesi fondati sui muscoli, che possono essere di business, diplomatici o militari ma in ogni caso mai paritari; acquisizione con ogni mezzo di risorse e materie prime là dove ci sono, meglio se in Paesi dove il governo non risponde ai cittadini e la corruzione offre opportunità.

La teoria ci farebbe dire che l’analisi di Xi è sbagliata, che i valori occidentali sono ambiti dalle popolazioni. E che i suoi obiettivi sono un’illusione: le democrazie si sono sempre dimostrate più forti delle dittature, che fossero di un singolo o del proletariato (proletariato si fa per dire). In questo momento, però, la realtà rischia di fare vacillare questa teoria. Tra coloro che si sono presentati alla porta del leader cinese di recente, c’è chi ha messo in chiaro che Pechino non può pensare di ribaltare l’ordine internazionale senza opposizioni, per esempio von der Leyen e Baerbock. Altri — Lula, i sauditi e gli iraniani, i talebani — sono invece contenti di trovare un forte punto di riferimento nella Cina. Ma Macron? Com’è possibile che il presidente francese non abbia, nei colloqui con Xi, tenuto presente le idee e gli obiettivi eversivi degli equilibri globali che il leader cinese ha illustrato più volte? Com’è possibile che sull’aereo di ritorno dalla Cina abbia dato un’intervista nella quale prende atto degli interessi di Pechino mentre prende le distanze da Washington, la quale con tutti i suoi difetti ed errori è pur sempre l’indispensabile difensore dell’ordine democratico? Improbabile che Macron abbia dimenticato l’appoggio che di fatto i cinesi stanno dando all’invasione dell’Ucraina. Ma c’è di più.

Mentre Macron saliva sull’aereo per rientrare a Parigi, altri aerei, cinesi e militari, si univano alle navi di Pechino per simulare un’altra volta, con armi vere, un blocco di Taiwan. Il guaio è che il presidente francese non ha solo detto che del destino dell’isola poco gli importa. Nell’intervista ad alta quota ha anche messo sullo stesso piano le politiche di Pechino e di Washington verso Taipei: dice giustamente che va difeso lo status quo nello Stretto di Taiwan ma dimentica che tutti gli europei, i taiwanesi e gli americani sono per mantenere lo status quo, non vedono alternative; gli unici che vogliono cambiarlo sono i cinesi, con le buone o con le cattive, hanno detto. Contraddicendosi, il presidente francese ha aggiunto che attorno allo status internazionale dell’isola c’è una questione da risolvere pacificamente: il che significa sposare la tesi di Pechino, l’unica capitale a sostenere che in effetti una questione c’è e va risolta, con buona pace dello status quo.

Con ogni probabilità, Macron modificherà, almeno nella forma, le posizioni che ha espresso, così come ha fatto dopo avere, negli anni scorsi, detto che la Nato aveva l’encefalogramma piatto e dopo avere inutilmente tentato una mediazione sull’Ucraina con Putin, per non umiliarlo. Il danno, però, ormai l’ha fatto. Ha introdotto un elemento di divisione nella Ue: non solo con i Paesi dell’Est ma persino con la Germania, per quanto questa sia legata commercialmente alla Cina. Ha provocato reazioni nelle parti più isolazioniste degli Stati Uniti, le quali, dopo le sue critiche implicite a Washington, hanno sostenuto che, se questa è la linea dell’Europa, è il caso di lasciare perdere il sostegno americano all’Ucraina (posizione assurda ma ora rafforzata). Ha indebolito il rapporto transatlantico. Ha messo una pietra finale sulla sua ambizione di essere il nuovo leader dell’Europa dopo l’uscita di scena di Angela Merkel: più che unire i partner li divide. Ha mostrato che, per quanto forte dei suoi valori e dei suoi sistemi, l’Occidente, del quale la Francia è un cuore insostituibile, può sbandare pericolosamente. E ha contribuito al buonumore di Xi Jinping.

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