Commentary on Political Economy

Monday 29 May 2023

 

Erdogan e il voto (regolare) in Turchia: quando l'Occidente progressista è l'arbitro della democrazia

Erdogan ha vinto le elezioni. Erdogan è un leader autoritario. Quindi la Turchia non è una democrazia. E la sua presenza nella Nato è una vergogna per tutti noi. Questo tipo di giudizio è frequente in Occidente. Di volta in volta viene applicato — a seconda delle nostre preferenze politiche — anche a un politico sovranista come il premier indiano Narendra Modi che assegna grande importanza alla religione induista come parte dell’identità nazionale. Molti leader africani – dei quali magari ignoriamo i cognomi – finiscono nel mucchio: autocrati anch’essi, perché i loro paesi non passano gli esami di democrazia secondo i canoni fissati dall’Occidente.

Questo è uno dei motivi per cui il Grande Sud globale – concetto geopolitico, non geografico, visto che Turchia e India stanno a Nord dell’Equatore – ci considera arroganti, e finisce per sentire l’attrazione di potenze come Cina e Russia che dicono di non «interferire» sulle scelte politiche interne.

La questione è importante perché siamo entrati in una fase in cui il Grande Sud globale è terreno di una competizione accesa tra sfere d’influenza rivali. Nel suo piccolo perfino l’Italia con l’annuncio di un Piano Mattei vuole intraprendere un recupero di ruolo in Africa. Il nostro approccio sui valori democratici è quello adeguato?

Alcuni criteri possono sembrare oggettivi. Cominciando dalle elezioni: ci sono stati brogli, oppure lo scrutinio si può considerare regolare? Sembra tutto semplice, salvo che Donald Trump ci ha ricordato il rischio di partire dalla forte convinzione che la propria parte politica vincerà, per cui «se vincono gli altri vuol dire che hanno barato». Quante volte siamo anche noi soggetti a questo pregiudizio, per cui una vittoria che non ci piace è “sospetta”? Quante volte abbiamo denunciato “il ruolo del denaro in politica”, cioè i miliardari che finanziano le campagne dei nostri avversari, ignorando i miliardari che finanziano quelle dei partiti che ci piacciono?

Altri criteri che a noi sembrano del tutto oggettivi per stabilire se un paese è democratico oppure no riguardano la libertà della stampa, il grado di autonomia dei giornalisti, il fatto che ci siano oppositori politici in carcere, l’indipendenza della magistratura. Non c’è dubbio che Vladimir Putin e Xi Jinping non passino nessuno di questi esami (benché tra i due personaggi vi sia una differenza, Putin ricevette originariamente un’investitura popolare mentre Xi non è mai stato eletto dal suo popolo bensì selezionato dal partito comunista). Anche molti paesi del Medio Oriente e dell’Africa non passano il test. Per essere oggettivi dovremmo aggiungere all’elenco tanti paesi che hanno la benedizione dell’universo progressista e tuttavia interferiscono sulla libertà di stampa e sull’indipendenza della magistratura, non soltanto i soliti sospetti Cuba e Venezuela ma anche Brasile e Messico.

Se anziché emettere sentenze sugli altri, guardiamo a noi stessi, la faccenda si complica. La censura sul cinema in Italia è stata abolita – ufficialmente – solo nel 2021 ma era in disuso da decenni. Però venne applicata regolarmente negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta. La messa all’indice dei libri – una pratica della chiesa cattolica – venne abolita solo nel 1966. La lottizzazione politica della Rai che cominciò allora e continua oggi (e vede ogni parte politica corresponsabile) potrebbe suscitare sospetto da Londra e Washington ma anche da alcune nazioni emergenti. Eppure sostenere che l’Italia del dopoguerra non sia stata una democrazia sarebbe un grave errore. C’è chi quell’errore lo fece ripetutamente, rivendicandolo con superbia: il presidente socialista francese François Mitterrand, accogliendo a braccia aperte tanti terroristi rossi che l’Italia aveva condannato con sentenze definitive, avallava l’idea che la nostra non fosse una vera democrazia, che lo Stato di diritto in Italia non passasse gli “esami francesi”.

Certo di errori giudiziari è piena la storia della giustizia italiana, il caso Tortora fu uno dei più agghiaccianti (anche quello di cui fu vittima Necci è stato ricordato di recente) ma non è affatto a questi errori che si riferiva Mitterrand. Per qualcuno che pontificava da Parigi, noi non eravamo una vera democrazia liberale neppure negli anni Ottanta, Novanta, eccetera.

A proposito di indipendenza della magistratura. La consuetudine italiana di magistrati che diventano celebri cavalcando qualche processo a danno di imputati importanti, poi usano la loro fama per candidarsi alle elezioni e intraprendere una carriera politica, non sembrerebbe un capolavoro di Stato di diritto neanche a qualche osservatore turco, indiano, africano, sudamericano. Riguardo al colore dei giudici: il Brasile di Lula da Silva ha una Corte costituzionale iper-politicizzata, però di sinistra (anti-Bolsonaro).

Per chi vive negli Stati Uniti come me, è evidente una preferenza ideologica dei grandi media, che denunciano la politicizzazione della Corte suprema americana solo quando ha una maggioranza conservatrice. E ignorano i danni fatti da procuratori di estrema sinistra nel degrado dell’ordine pubblico a New York, San Francisco.

Siamo in un mondo fatto da “cinquanta sfumature di grigio”, come disse un diplomatico indiano, ma noi occidentali preferiamo raccontarcelo in bianco e nero, come una lotta assoluta tra il bene e il male.

Sui temi etici e valoriali Erdogan, Modi, e molti capi di Stato africani, non passano il test dei diritti civili per il loro rapporto con la religione dominante, le loro posizioni sull’aborto, lo status della donna, le minoranze sessuali. Allora vogliamo sostenere che l’Italia non era una democrazia fino a quando c’erano i crocefissi nelle scuole, oppure fino al referendum sul divorzio del 1974, o fino a quello sull’aborto nel 1975? Sarebbe assurdo. Eravamo un paese democratico anche prima di quei cambiamenti, solo che l’evoluzione dei valori e delle convinzioni non era arrivata dove siamo adesso.

Però noi continuiamo a calare giudizi assoluti sul passato, imponendo i nostri valori del 2023 su epoche storiche precedenti.

Gli americani sono ancora più intransigenti e assolutisti degli europei, sotto questo profilo. Ho raccontato il viaggio della vicepresidente Kamala Harris in Africa, e come il tentativo di ricostruire un’influenza Usa in quel continente subisca l’interferenza continua della lobby statunitense Lgtbq, che sottopone ogni paese africano al test di purezza sui diritti dei gay, dei transgender. Test che l’America stessa non avrebbe passato a pieni voti neppure dieci anni fa (il diritto al matrimonio gay è stato esteso a tutti gli Stati Uniti solo nel 2015).

Questa è la nuova forma di imperialismo culturale che fa imbestialire il Grande Sud globale. Vista dagli elettori di Erdogan o di Modi, così come dai cristiani evangelici dell’Africa e dell’America latina, o da tantissimi altri che nei paesi emergenti restano affezionati a sistemi di valori tradizionali, l’Occidente pratica una nuova forma di ingerenza post-coloniale, stavolta ammantata di progressismo, ma sempre altrettanto invasiva e prepotente.

Putin, Xi, Erdogan, Modi, non soltanto non pongono condizioni politico-ideologiche per sviluppare rapporti economici e strategici con gli altri paesi emergenti, ma resistono alle nostre prediche valoriali anche in casa loro. Le nostre opinioni pubbliche non accetterebbero una politica estera “amorale” e del tutto avulsa da giudizi di valore.

È giusto che siamo affezionati ad alcuni valori non solo nostri, quei principi che dalla loro origine in Occidente sono diventati universali (e stanno scritti nella Carta dell’Onu). Dovremo però diventare capaci di ragionamenti un po’ più sfumati, che storicizzino quei valori che oggi certe componenti ideologiche dell’Occidente presentano come assoluti, non negoziabili. Altrimenti ci condanniamo ad essere percepiti come i colonialisti di sempre, con una casacca nuova.

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