Commentary on Political Economy

Sunday 28 May 2023

Immaginate il dittatore di un regime in guerra che non vince sul campo da un anno, che non recluta nuovi soldati per timore di una rivolta, che minaccia l’arresto dei suoi funzionari se si dimettono, mentre le élite nel Paese diventano sempre più scettiche nei suoi confronti. In più, il suo governo si affida a una banda di mercenari il cui leader insulta il ministro della Difesa, il comandante dell’esercito e probabilmente il dittatore stesso.

Scommettereste sul futuro di un regime del genere? Perché quello di Vladimir Putin è così. Dall’estate scorsa ha subito solo sconfitte e dovuto cedere terreno in Ucraina, mentre l’offensiva russa su Bakhmut è sostanzialmente fallita malgrado i costi enormi in vite umane, materiale bellico e devastazioni. Quanto alla nuova mobilitazione, preparata da mesi, continua a slittare perché il Cremlino teme un’ondata di ostilità nell’opinione pubblica verso la guerra e verso Putin stesso. Intanto si è scoperto che sul campo l’esercito sta mandando mezzi corrazzati degli anni ‘50, in mancanza di meglio.

È in questo quadro che nelle ultime settimane si sono susseguiti piccoli scricchiolii nella verticale del potere russo. A fine marzo qualcuno ha intercettato due oligarchi fedeli al regime, Iosif Prigozhin e Farkhad Akhmedov, quindi ha diffuso i contenuti dei loro scambi. I due dicono che la leadership russa è fatta di «stupidi scarafaggi» che stanno «trascinando il Paese verso il basso» e «distruggendo il futuro». L’aspetto interessante è che ai due non è successo niente: non sono volati da una finestra, né sono stati avvelenati o incarcerati. Il regime ha finto di credere che quella registrazione fosse falsa, forse perché in questa fase non ha l’energia per avviare una purga all’interno delle élite.

Non sfugge neanche al Cremlino che gli oligarchi russi restano passivamente leali, ma non condividono il miraggio imperiale di Putin. Miliardari come Alexei Mordashov di Severstal o Mikhail Fridman di Alfa-Bank continuano a collaborare con il regime e con il suo apparato militare-industriale, complici fino in fondo, ma solo per opportunismo e per denaro. Metterebbero fine alla guerra domani, se potessero, perché danneggia i loro interessi; e lo fanno capire ai loro interlocutori occidentali.

Il cinismo verso Putin nell’élite russa degli affari ormai è così evidente che negli Stati Uniti si inizia a riflettere a come incrinare il rapporto fra il dittatore e i suoi oligarchi. Una delle proposte allo studio, in questo momento, riguarda le sanzioni: potrebbero essere sospese a favore degli oligarchi che si schierano per il ritiro delle truppe e versano all’Ucraina il 75% del proprio patrimonio congelato. Probabilmente neanche questo basterà a spostare gli equilibri, eppure a Mosca la presa del potere sembra meno solida di un anno fa. Questa settimana si è saputo che alti burocrati, esponenti dei servizi segreti dell’Fsb e persino due governatori regionali sono stati minacciati di arresto qualora si fossero dimessi: non proprio una prova di forza, quando un regime deve garantirsi la fedeltà con questi mezzi.

Infine è scoppiato il caso più plateale, quello di Yevgeny Prigozhin (omonimo, non parente dell’oligarca intercettato). Il fondatore di Wagner, la milizia irregolare che assedia Bakhmut, ha insultato e trattato pubblicamente da incompetenti il ministro della Difesa Sergey Shoigu e il comandante supremo dell’esercito Valery Gerasimov. Ancora una volta nessuno ha reagito. Quindi Prigozhin è parso alzare il tiro: «Come si fa a vincere una guerra - si è chiesto su Telegram - quando viene fuori che il nonno è una totale testa di c.?». Sergey Radchenko, storico e politologo russo-britannico della Johns Hopkins University, non ha dubbi sul significato della battuta: «nonno», fa osservare, è il termine con il quale l’opposizione si riferisce a Putin; Prigozhin non poteva ignorarlo, benché in seguito abbia negato di essersi riferito al suo presidente.

Anche qui l’aspetto notevole è la totale assenza di reazione da parte del Cremlino, che continua ad avere bisogno di Wagner. «Assistiamo a una disorganizzazione delle forze armate, nel momento del pericolo, che rivela come qualcosa stia funzionando in modo profondamente sbagliato nello Stato», nota Radchenko. «Da fuori non sappiamo cosa stia accadendo, ma vediamo il fumo che esce: si notano sintomi di malessere e i segni di un quadro destabilizzante». Non tutti gli osservatori concordano, in realtà. Dmitri Alperovitch, del think tank di Washington Silverado Policy Accelerator, nel 2021 è stato il primo a prevedere l’aggressione all’Ucraina. Ora pensa che la presa di Putin sul potere resti salda. «Alimentare divisioni fra i collaboratori è tipico di un dittatore - dice -. Ma non ci sono segnali che i servizi di sicurezza o l’esercito siano contro di lui: la sua posizione è sicura e il Cremlino oggi scommette su una guerra lunga, di cui spera che gli Occidentali prima o poi si stanchino».

Ma neanche Alperovitch esclude quello che definisce un «cigno nero»: una controffensiva ucraina nei prossimi mesi che tagli fuori la Crimea dal resto dell’occupazione russa. Perché un dittatore che attinge il suo prestigio all’uso della forza può perderlo quando l’uso della forza, alla fine, lo umilia.

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