Commentary on Political Economy

Wednesday 24 May 2023

 

Riprendiamo il controllo dell’inflazione

La politica dell’inflazione rivela sconcertanti analogie con la politica della Brexit, movimento che ha diviso il Regno Unito in tre distinti campi, meridionale, metropolitano e industriale nelle regioni del nord. L’inflazione provoca spaccature molto simili. I meno abbienti, ovviamente, sono colpiti dall’inflazione più pesantemente delle classi benestanti. La novità è che l’aumento dell’inflazione rischia di produrre errori di valutazione paragonabili a quelli che hanno portato alla Brexit.

Conosco molti economisti, specie tra quelli schierati a sinistra, che mostrano assai scarsa considerazione per l’obiettivo della stabilità dei prezzi, e che preferirebbero che le banche centrali si concentrassero piuttosto su crescita e occupazione. Per costoro, la fissazione con la stabilità dei prezzi è un vezzo borghese. Il loro approccio mentale risale al ventesimo secolo, quando i princìpi economici keynesiani dettavano le politiche a favore del ceto dei lavoratori. A quei tempi, il compromesso cruciale dell’azione pubblica si giocava tra inflazione e disoccupazione. I lavoratori soffrivano per la disoccupazione, ma molto meno per l’inflazione. Negli anni Settanta, i sindacati riuscirono a negoziare accordi salariali superiori al tasso d’inflazione. Le classi agiate, viceversa, erano maggiormente penalizzate dall’inflazione che dalla disoccupazione. All’epoca, la destra detestava l’inflazione, e la sinistra detestava le politiche intraprese per combatterla.

Oggi, il quadro è completamente rovesciato. I poveri e i lavoratori a basso reddito sono maggiormente interessati alla stabilità dei prezzi, poiché la perdita di potere dei sindacati significa che non c’è più nessuno in grado di tutelare i loro interessi, tranne la banca centrale.

Invece i lavoratori a medio e alto reddito, ai nostri giorni, dispongono di più mezzi, rispetto al passato, per proteggersi dall’inflazione. Non investono più i loro risparmi in liquidità o depositi bancari, bensì in proprietà immobiliari o titoli di borsa. Per loro, il pericolo maggiore si nasconde negli elevati tassi di interesse necessari per far scendere l’inflazione.

Tra questi due periodi si è aperto un breve interludio, tra il 1990 e il 2020, durante il quale si è diffusa l’opinione che un’inflazione contenuta sarebbe stata di beneficio per tutti. La tesi era la seguente: visto che ci troviamo tutti d’accordo sull’obiettivo finale, lasciamo agli esperti il compito di occuparsi dei dettagli. Si apriva così l’età aurea della macroeconomia e dell’indipendenza delle banche centrali.

Quell’èra volge ormai al termine, data l’incapacità dimostrata dalle banche centrali di colpire nel segno. Sono ancora indipendenti, è vero, ma ciò che sta venendo meno è quel consenso di massima sul quale poggia la loro indipendenza. La politica monetaria è ridiventata un argomento politico. Tutto è cominciato con la crisi finanziaria globale, quando le banche centrali hanno adottato il quantitative easing, l’acquisto cioè dei titoli di stato per creare moneta. Per di più, durante la pandemia, hanno spalancato i forzieri e distribuito aiuti finanziari a piene mani. Era l’epoca in cui le banche centrali avevano scoperto l’arte del possibile, e di conseguenza si sono arricchiti i detentori di asset finanziari.

Oggi, invece, le banche centrali vengono accusate di aggravare le condizioni dei poveri consentendo il rialzo dell’inflazione. Certo, non hanno nessuna responsabilità per i disagi e le carenze provocati dalle interruzioni dei rifornimenti durante la pandemia e dalla guerra di Vladimir Putin. Ma le crisi dei prezzi sono una realtà. L’errore è stato piuttosto quello di sottostimare le ripercussioni e non essere intervenuti in tempo.

Prima o poi le banche centrali hanno finito col rialzare i tassi d’interesse, in ritardo e controvoglia, e oggi continuano ad alimentare le aspettative che il peggio passerà presto. I tassi d’interesse sono ancora inferiori ai livelli dell’inflazione strisciante nella zona euro e nel Regno Unito. Questo suggerisce che le banche centrali stanno scommettendo su una riduzione spontanea dell’inflazione. La reazione fulminea e robusta che le banche centrali opposero alla crisi finanziaria globale è in netto contrasto con la relativa indifferenza che mostrano oggi nei confronti dell’inflazione.

A mio avviso, il paese maggiormente a rischio è il Regno Unito, un paese di medie dimensioni con un vasto settore finanziario. Andrew Bailey, il governatore della Banca d’Inghilterra, talvolta sembra voler privilegiare la stabilità finanziaria, mostrando un interessamento di facciata agli obiettivi inflazionistici. Persino nei tempi migliori, le banche centrali devono cercare un accomodamento tra bassi tassi d’inflazione e stabilità finanziaria. Questo fenomeno è conosciuto come dominio finanziario, che impedisce loro, al momento attuale, di elevare i tassi di interessi al 6 percento e di intraprendere qualunque mossa necessaria per riportare l’inflazione al 2 percento. Alzare i tassi d’interesse fino a quella percentuale equivale a provocare il crollo del mercato immobiliare e scatenare la stretta finanziaria. O forse peggio. Lo scenario si trasformerebbe in un incubo per la classe media.

Confrontiamo questa situazione a quanto accaduto alla fine degli anni Settanta. Quando Margaret Thatcher salì al potere nel 1979, il suo governo rialzò i tassi d’interesse al 17 percento entro il novembre di quell’anno, ed era stata eletta dalla classe media inglese. Oggi è la stessa classe media, tramite i suoi rappresentanti e i mezzi di comunicazione, a sollecitare la Banca d’Inghilterra ad agire con somma cautela.

Alcuni economisti vorrebbero addirittura che le banche centrali innalzino l’obiettivo d’inflazione, sostenendo che i sacrifici necessari per riportarla al 2 percento sono insopportabili. In altre parole, chiedono di spostare l’obiettivo seguendo la traiettoria del pallone, e nel farlo tentano di presentare la manovra come una necessità tecnica, mentre in realtà si tratta di una pura scelta politica.

La ripoliticizzazione della politica monetaria ci riporta alla Brexit. L’adesione all’Unione europea, il mercato unico e l’integrazione finanziaria in Europa hanno avvantaggiato alcuni paesi più degli altri. La bolla politica metropolitana non ha afferrato questa realtà. La stessa cosa sta avvenendo oggi, in un settore diverso. La tutela politica offerta dalla sinistra non funziona più per i suoi elettori.

Non ci sorprendiamo pertanto se emergeranno nuovi partiti politici o raggruppamenti all’interno dei partiti tradizionali per reclamare la necessità di riprendere il controllo, sottraendolo alle banche centrali. Abbiamo già visto un primo passo in questa direzione in Australia, dove il governo ha deciso di tarpare le ali al governatore della banca centrale, colpevole di non aver affrontato l’inflazione per tempo. La banca centrale australiana è tuttora indipendente, ma questo episodio dovrebbe servire per lanciare un ammonimento alle banche centrali di altri paesi: il loro status non è garantito. E qualcosa di molto simile potrebbe accadere anche alla vostra banca.

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