Commentary on Political Economy

Monday 2 October 2023

 

Perché non stiamo vincendo la guerra economica con Putin (ma non finisce qui)

di Federico Fubini

Perché non stiamo vincendo la guerra economica con Putin (ma non finisce qui)

La settimana scorsa il governo russo ha presentato il suo bilancio per l’anno prossimo ed è lo specchio di un Paese malsano. Malsano, in primo luogo, nelle idee dei suoi leader. Le spese per la difesa, la “sicurezza nazionale” e le forze dell’ordine sono praticamente il doppio della spesa sociale. La difesa assorbe da sola praticamente tutte le entrate derivanti dal primo settore industriale russo, quello del gas e del petrolio. E le voci che hanno a che fare con l’esercito e le strutture repressive assorbono nettamente più risorse di quante ne vadano per il welfare e per gli investimenti nell’economia nazionale. Il bilancio russo è l’immagine distopica di un dittatore chiuso nelle sue ossessioni imperiali. Ma, ora meno che mai, non dobbiamo sottovalutare la Russia di Vladimir Putin: da ben prima di lanciare la guerra aperta contro l’Ucraina, sta perseguendo una guerra economica non dichiarata contro l’Europa. E almeno per ora non la sta perdendo (invece è essenziale che non lo si lasci vincere). Vediamo meglio.

Perché non stiamo vincendo la guerra economica con Putin (ma non finisce qui)

Se “il bilancio dello Stato è la coscienza di una nazione”, come dice il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, allora la Russia non se la passa bene. L’anno prossimo il bilancio militare sarà dell’equivalente di circa cento miliardi di euro, più o meno il 10% del prodotto interno lordo del Paese. E’ più che triplicato dal 2020 e, unito a quello per le forze di repressione interna, sfiora il 40% di tutta la spesa pubblica. Se si dà un’occhiata alle proiezioni fino al 2026, quando dovrebbe calare all’equivalente di circa 70 miliardi di euro, si ricavano due impressioni. La prima è che Putin veda il 2024 come l’anno del tutto-per-tutto, il momento in cui spera di risolvere a suo modo la questione ucraina approfittando della stanchezza europea verso la guerra e del fatto che gli Stati Uniti saranno distratti e forse paralizzati dalle elezioni presidenziali. Di sicuro l’aumento del budget della “difesa nazionale” da 6.406 miliardi di rubli quest’anno a 10.765 miliardi l’anno prossimo dovrebbe mettere in allarme l’Occidente. Già le spese dell’anno scorso erano più che doppie rispetto agli anni prebellici e ora fanno un altro balzo del 67%. Dobbiamo chiederci se stiamo aumentando il sostegno all’Ucraina in pari misura, e la risposta è no. (Ringrazio Alexandra Prokopenko per aver messo a disposizione i dati attraverso la sua newsletter per The Bell).

La seconda considerazione in quel bilancio è che però Putin deve sentirsi sicuro di sé, anche sul terreno della tenuta economica della Russia. Quanto questa fiducia sia fondata, meriterebbe un’analisi a parte. Ma senz’altro il tentativo delle democrazie di piegare la Russia, isolandola sul piano commerciale e finanziario, non è riuscito. Putin inizia a vedere nuovi segni della nostra vulnerabilità e del nostro opportunismo, che devono farlo ben sperare in cuor suo.

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Prendete per esempio il grafico qui sopra, messo a disposizione dal centro studi Bruegel: malgrado tutti gli annunci e i buoni propositi, i Paesi dell’Unione europea non avevano mai importato tanto gas russo dal viadotto Turkstream (attraverso la Turchia) come stanno facendo dall’estate di quest’anno. Certo, nel complesso stiamo importando molto meno gas russo rispetto a prima della guerra: 500 milioni di metri cubi alla settimana, contro 1.700 milioni all’inizio del 2022, prima della guerra e oltre tremila del 2021. Anche perché Gazprom non ce lo vende più molto facilmente. Ma ad esempio le quantità di gas naturale liquefatto che stiamo comprando dalla Russia – come osserva Simone Tagliapietra di Bruegel – sono ormai tornate ai livelli prebellici, dopo una lieve flessione. Questi sono segni di una profonda insicurezza europea legata al timore di ripiombare in crisi energetica e a Putin possono essere sfuggiti. Non appena ne avrà l’occasione, cercherà nuovamente di manipolare le nostre paure.

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Né è sfuggito a Putin che non solo il “tetto al prezzo” sul petrolio russo indicato dal G7 non sta funzionando, ma per ora lui stesso riesce a manipolare le quotazioni del barile grazie a una convergenza di interessi con l’autocrate di Riad Mohammed bin Salman. I due hanno alle spalle i due principali Paesi produttori di greggio al mondo e il loro annuncio coordinato in luglio di un taglio di produzione, esteso poi il mese scorso fino alla fine dell’anno, ha fanno salire il prezzo del barile del 30% in tre mesi, fino quasi a cento dollari. Putin deve avere in questo momento la sensazione inebriante che controlla un ingrediente essenziale della nostra inflazione, con tutte le contraddizioni che essa è in grado di mettere a nudo nelle economie europee. Di certo, malgrado il “tetto al prezzo” a 60 dollari al barile, il petrolio russo si sta vendendo in questa fase a 83 dollari (più 50% dalla fine di giugno). Lo sconto rispetto al Brent è diminuito perché i principali compratori – nell’ordine India, Cina e Turchia, nel mese di agosto – non percepiscono più alcun rischio nel rivolgersi ai fornitori russi. Le entrate di Mosca da greggio sono certo sotto a quelle di prima della guerra, ma negli ultimi tre mesi non hanno fatto che salire.

Perché non stiamo vincendo la guerra economica con Putin (ma non finisce qui)

Anche nel mercato del grano, esente dalle sanzioni come tutta la filiera alimentare, si notano tendenze simili. Putin a denunciato l’accordo sull’export dai porti ucraini, la Polonia si è coperta di disonore impedendo l’export dal Paese vicino e intanto la Russia, in questi anni, ha sostanzialmente rubato le quote di mercato dell’Ucraina per diventare la superpotenza mondiale in questa derrata fondamentale. Uno studio del centro studi Divulga, basato su dati del dipartimento dell’Agricoltura americano, è chiaro in proposito. L’export di grano russo salirà del 36% nel 2022-2023 a 45 milioni di tonnellate (grafico sopra), di gran lunga la quota più alta al mondo e il record per il Paese. Le aree coltivate e la produzione sono aumentate e i principali clienti sono Paesi emergenti dal significato strategico per noi europei: Turchia e Egitto. Nel frattempo la produzione e l’export ucraino sono fatalmente scesi. Se si aggiunge che intanto la Cina ha accumulato il 53% delle scorte mondiali di grano, anche qui la conclusione è come sopra: il prezzo della derrata è più che dimezzato dall’inizio della guerra, tornando a livelli fisiologici, ma Putin deve avere fiducia di poter controllare con un altro suo alleato – questa volta l’autocrate di Pechino Xi Jinping – un altro fattore essenziale dell’inflazione in Europa.

Putin dev’essersi convinto di poterci ancora ricattare. Ci vede deboli, indecisi, opportunisti, soprattutto privi di una strategia. Del resto anche il mercato dell’acciaio rivela aspetti simili. Qui le sanzioni esistono e la Russia ha perso quote di mercato mondiale, benché molto meno dell’Ucraina. Ma per esempio nelle bramme – pezzi semilavorati utilizzati in siderurgia, che valgono un decimo del mercato mondiale – il suo export è rimasto stabile e quello verso l’Italia è salito del 56% l’anno scorso e di nuovo dell’8% quest’anno. (Dati dell’International Steel Statistics Bureau).

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Putin, insieme a Xi Jinping, Mohammed bin Salman, all’autoritario premier indiano Narendra Modi e all’autocrate turco Recep Tayyip Erdogan, vuole dimostrare che noi occidentali abbiamo perso il controllo di alcuni canali vitali dell’economia internazionale. L’uomo del Cremlino in particolare vuole dimostrare che può ancora mettere in difficoltà l’Europa con la sua guerra economica asimmetrica, che può ancora far esplodere le nostre contraddizioni: la Polonia contro l’Ucraina sul grano, la rivolta al fronte filo-Kiev che si estende alla Slovacchia, il governo italiano contro la Banca centrale europea che reagisce a un’inflazione innescata dallo choc energetico della guerra, i timori sul debito per l’aumento dei tassi di mercato. E così via.

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Anche questa sarà una lunga guerra. Come quella, più tragica, che si combatte in Ucraina. Gli autocrati del mondo emergente hanno molti dissidi fra loro, ma almeno una strategia in comune: vogliono svelare le nostre debolezze e, se possibile, la nostra avidità. Noi europei invece non ci stiamo preparando per una guerra economica lunga e non abbiamo veramente una strategia. Forse sarebbe il caso di darcene una.

Questo articolo proviene dalla newsletter del Corriere della Sera «Whatever it takes», scritta da Federico Fubini. Per iscriversi, cliccare qui.

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