Commentary on Political Economy

Friday 16 February 2024

 

La morte di Navalny e le troppe illusioni su Putin | L'editoriale di Marco Imarisio

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La morte del dissidente Navalny mette in crisi chi ha sempre sperato in una Russia diversa

La notizia della morte di Aleksei Navalny ha il segno di una resa quasi invincibile. Per l’ineluttabilità della sorte di un uomo coraggioso che il 17 gennaio del 2021, quando decise di rientrare in patria dalla Germania, dove era stato curato per le conseguenze di un ennesimo tentativo di avvelenamento nei suoi confronti, sapeva di andare di incontro a un destino da martire. Forse, l’aveva scelto. Tutti temevano in cuor loro che sarebbe potuta finire così. Ma ben pochi credevano che potesse accadere davvero, nonostante i precedenti non incoraggiassero certo un ottimismo basato sul fatto che il mondo intero guardava a lui, al nemico pubblico numero uno di Vladimir Putin. E quindi non sarebbe stato possibile eliminarlo anche fisicamente, dopo aver cancellato la sua presenza pubblica inviandolo nella più remota delle colonie penali siberiane. Ancora una volta, abbiamo sbagliato, ancora una volta non abbiamo capito. Noi, intesi come emisfero occidentale, che ci ostiniamo a guardare alla Russia utilizzando le nostre unità di misura, senza realizzare che ormai risultano inefficaci per comprendere non solo un Paese ripiegato su sé stesso, ma anche le sue dinamiche più immediate.

La speranza che parlare di Navalny, amplificando la sua voce resa più flebile dalla prigionia e dall’assenza fisica, potesse se non altro salvare la sua vita, era soltanto una illusione. Poco importa se la sua fine sia avvenuta per cause naturali, durante una passeggiata in un luogo di pena dove all’ora presunta del decesso la temperatura esterna era 31 gradi sottozero. Era il detenuto più importante del mondo, seguito dall’intera comunità internazionale. Spettava al Cremlino prendersene particolare cura. Invece, dopo condanne con motivazioni risibili, gli è stata imposta una vera e propria via crucis, fino all’approdo estremo in quella Siberia, che anche nella sua madre patria ha un forte valore simbolico, di punizione definitiva, di un luogo dal quale non si torna più indietro, se non piegati in modo irrimediabile nel fisico e nella mente. Infine, la via crucis ha avuto la sua conclusione più logica. Che nella sua spietatezza rappresenta anche la conferma di un sentimento al quale ormai deve chinare la testa anche chi continua a sognare una Russia diversa, e relazioni più normali, se non amichevoli, con lei.

L’eventuale fine dell’Operazione militare speciale, per altro al momento inimmaginabile, non segnerà alcun ritorno alla situazione precedente l’invasione dell’Ucraina. Almeno, non dovrebbe. Sono tanti, troppi gli avvisi di chiamata che l’Occidente ha ricevuto e volutamente ignorato, ben prima del 24 febbraio del 2022. Basterebbe fare una cronologia dell’eliminazione metodica, costante, di tutti gli oppositori politici che nel 2012 presero parte alla gigantesca manifestazione di protesta contro la rielezione di Putin dopo la staffetta con Dmitry Medvedev, e sovrapporla con le tante dichiarazioni dei putiniani di casa nostra, con le immagini delle loro comparsate con indosso la maglietta dello zar, con gli accordi commerciali stretti con Gazprom, fingendo che quell’azienda non fosse diretta emanazione dell’attuale potere russo. I dissidenti e i giornalisti perseguitati o assassinati sono stati una nota a margine in quel libro delle favole dettate dalla convenienza che l’occidente ha dedicato alla Russia di oggi. Non contavano. Erano incidenti di percorso, episodi minori derubricati a fatti di cronaca nera interni. Da Anna Politkovskaya (7 ottobre 2006, diciassette anni fa) ad oggi, è sempre andata così, diciamoci la verità. E quando la realtà dei fatti minacciava di disturbare un canovaccio fatto di finta riprovazione e di sanzioni dimostrative, ecco che venivano proposti i distinguo, le eccezioni, sulla figura della vittima di turno, in genere utilizzando fango gentilmente messo a disposizione dagli organi di stampa russi. Anche Navalny è stato sottoposto a questo trattamento.

Accanto al suo nome, spesso, è stato posto un asterisco, che gli attribuiva l’etichetta di fanatico nazionalista per via di alcune dichiarazioni rilasciate nel 2014 al tempo della prima invasione del Donbass. La sua correzione di rotta, la spiegazione di quelle parole, mai così nette come vennero presentate dagli organi di stampa internazionali, addirittura le sue scuse, non hanno mai avuto lo stesso rilievo della tesi iniziale, rivelando un atteggiamento giudicante nei suoi confronti che semplicemente serviva a celare la nostra cattiva coscienza. La morte di Navalny dovrebbe rappresentare la fine di ogni illusione, interessata o meno. I putiniani di casa nostra, i teorici dell’appeasement, dovrebbero realizzare il fatto che la Russia ormai è lontana, che al Cremlino non tengono in alcun conto la nostra opinione e la nostra diplomazia, benevola od ostile che sia. Non siamo più nulla per loro, e chissà quando torneremo ad essere qualcosa di diverso da un nemico. Per chi invece continua disperatamente ad amare quel Paese, considerandolo parte integrante della cultura e della storia europea, per chi nonostante tutto coltiva ancora una speranza, per quanto in apparenza vana, l’unico appiglio è proprio la figura di chi ci ha appena lasciato, in modo così ingiusto. E che forse giustifica l’avverbio utilizzato nella frase iniziale di questo articolo. Osip Mandelstam, che morì in un gulag di Stalin, scrisse che la Russia è quel Paese che uccide i suoi poeti ma fa nascere persone pronte a morire per i loro versi. Anche se ogni giorno diventa più difficile, anche se costa una fatica improba, cerchiamo di pensare che la Russia non è solo Putin. È anche quel posto dove nascono eroi disposti a morire per il loro ideale di libertà, per inseguire un sogno di democrazia, per avere un Paese più giusto. Come Aleksei Navalny.

16 febbraio 2024, 20:43 - modifica il 16 febbraio 2024 | 23:57

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