L’ipocrisia europea sulla crisi curda
di
Paolo Mieli | 11 ottobre 2019
Siamo noti campioni di chiacchiere alle quali fa seguito una disamina
delle virtù della mediazione e, sotto il profilo militare, dei pregi del «non
intervento».Non protesteremo mai abbastanza per i
torti che ancora una volta il popolo curdo è costretto a subire. Ed è un bene
che l’Europa vada avanti con le manifestazioni, le convocazioni di
ambasciatori, qualche pur timida forma di ritorsione nei confronti della
prepotenza turca. È una buona cosa, altresì, che si denunci a gran voce la
responsabilità del presidente statunitense in ciò che sta avvenendo dalle parti
di Rojava: se Donald Trump non avesse ritirato i suoi militari, quel che è
accaduto e quel che di terribile potrebbe ancora accadere non sarebbe stato
possibile.
Ma stride che questa generosa, pressoché unanime
partecipazione all’apprensione per la sorte dei curdi, si arresti
all’improvviso di fronte a considerazioni più prosaiche circa l’opportunità di
dare ancora soldi al regime di Ankara perché continui a «ospitare» i profughi
siriani (al momento più
di tre milioni e mezzo di esseri umani). Ed è forse improprio definire «ricatto» l’annuncio di Recep Tayyip Erdogan che, in caso di rottura con l’Europa si riterrà libero di lasciare espatriare o espellere quei profughi assieme agli altri che arriveranno.
di tre milioni e mezzo di esseri umani). Ed è forse improprio definire «ricatto» l’annuncio di Recep Tayyip Erdogan che, in caso di rottura con l’Europa si riterrà libero di lasciare espatriare o espellere quei profughi assieme agli altri che arriveranno.
Quale «ricatto»? La verità è un’altra: quel contratto del
2016 che ha consentito all’autocrate turco di incassare tre miliardi
di euro, fu discutibile sotto il profilo morale. Discutibile perché già allora
si sapeva bene che pagavamo Erdogan affinché rinchiudesse quegli esuli in
recinti molto simili a campi di contenzione. Né chiedemmo rilevanti
contropartite di impegni a salvaguardia del profilo etico dell’operazione. Ci
limitammo a raccomandare – come incredibilmente fa ancora oggi il segretario
della Nato, Jens Stoltemberg – «moderazione». Quella «moderazione» che adesso
l’Alleanza a-tlantica chiede ai tank di Erdogan entrati nella Siria
settentrionale che già hanno provocato numerosi morti. Eravamo infine
consapevoli, noi europei, del fatto che il regime turco avrebbe tenuto per sé
buona parte dei miliardi di euro teoricamente destinati ai migranti. Altro che
migranti: quei miliardi di euro erano il prezzo pagato per un’operazione sporca.
Ragion per cui se adesso l’Europa giungesse a una
(lodevole) rottura con il despota di Ankara, dovremmo considerare l’uscita dei
profughi dalla Turchia alla volta dell’Europa come l’esito di un atto da noi
compiuto nella consapevolezza delle conseguenze che avrebbe generato. Ma allora
perché qualcuno dovrebbe esigere la rottura (o anche solo la minaccia di una
rottura) tra Ue e Turchia nel caso in cui non vengano ritirati i militari della
mezzaluna dal nord della Siria? Per il fatto che noi lo dobbiamo ai curdi, i
quali meritano di avere una terra in cui poter vivere in pace. Soprattutto ora,
dopo che coraggiosamente per anni hanno fronteggiato l’Isis che aveva iniziato
a insanguinare l’Europa, e hanno combattuto, per così dire, al posto nostro. La
causa curda andrebbe adesso sostenuta con la stessa fermezza con cui Mario
Draghi ha sorretto le economie europee: «Whatever it takes».
E qui veniamo al discorso su Trump. È
ridicolo rimproverargli di aver abbandonato il Nord della Siria quando sappiamo
che noi europei non abbiamo nessuna intenzione di andare a sostituire, né tutti
insieme né in ordine sparso, quei soldati statunitensi. Agli europei sfugge che
le roboanti parole di sdegno e di sostegno morale contro le soperchierie
dovrebbero all’occorrenza essere sorrette dall’uso della forza. Invece noi
siamo da sempre noti campioni di un bellicoso intervento a chiacchiere al quale
fa seguito una meticolosa disamina delle virtù della mediazione politica e,
sotto il profilo militare, dei pregi del «non intervento». Fu così nel 1936,
all’inizio della guerra civile spagnola, allorché Francia e Gran Bretagna non
trovarono la determinazione per muoversi in soccorso della Repubblica aggredita
(mentre l’Italia fascista e la Germania nazista davano una mano, probabilmente
decisiva, alla causa di Francisco Franco). Con quell’assenza l’Europa
democratica diede un inconsapevole contributo allo scatenamento della Seconda
guerra mondiale.
Ci fu poi nel secondo dopoguerra una sola occasione, tra
il 1998 e il ’99, nella quale una parte del nostro continente si impegnò –
sotto le insegne della Nato – in una «guerra umanitaria» (così la definimmo per
attenuarne la portata); guerra che aveva lo scopo dichiarato di combattere le
sopraffazioni dei serbi ai danni dei musulmani del Kosovo. Decidemmo allora di
difendere un popolo più debole dalle angherie di un altro più forte. Un po’
come se adesso trovassimo il coraggio di fare qualcosa di altrettanto concreto
a favore dei curdi e di porre un argine alle prepotenze turche. Ai tempi del Kosovo
ottenemmo ciò che ci eravamo proposti, inclusa la deposizione del dittatore
Milosevic, poi processato dalla Corte dell’Aja. Ci furono all’epoca – come è
normale che sia – intellettuali che si schierarono con veemenza contro
l’intervento «umanitario», a favore del despota serbo. Adesso, proprio nelle
ore in cui i tank di Erdogan entrano in Siria settentrionale e si danno alle
prime mattanze, viene assegnato il premio Nobel a Peter Handke. Quell’Handke
che ai tempi negò la pulizia etnica dei serbi, non riconobbe la legittimità del
Tribunale internazionale a giudicare su quei crimini per poi tenere un commosso
discorso funebre sulla tomba di Milosevic. Certo il riconoscimento va alla
produzione letteraria, non alle sue posizioni politiche di allora. Ma la
coincidenza cela qualche recondito significato su cui sarebbe opportuno
fermarci a meditare. Capiremmo, al termine di questa riflessione, perché –
passato il momento delle lacrime esibite in pubblico – è assai improbabile che
dall’Europa parta un’autentica, concreta iniziativa a favore dei curdi.
No comments:
Post a Comment