Commentary on Political Economy

Saturday 3 September 2022

Shishkin: «Dopo Putin ci sarà un altro zar. La Terza guerra mondiale è iniziata, ma in Occidente nessuno vuole sentirne parlare»

«In prima pagina, la guerra. Sull’ultima pagina, il cruciverba». Mi torna in mente un passo del mio romanzo «The light and the dark» mentre viaggiavo in treno pochi giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina.


Di fronte a me, un passeggero leggeva il giornale: in prima pagina c’era la guerra, sull’ultima pagina, le parole crociate. Sono passati diversi mesi da allora, e gli orrori quotidiani hanno cominciato a sparire dai titoli dei giornali, malgrado l’intensificarsi degli scontri armati in tutta la loro efferatezza.


In Occidente nessuno vuole più sentir parlare di guerra, la gente è stanca di massacri e solidarietà.

La gente reclama la pace, prezzi stabili, una vita tranquilla e la possibilità di godersi le vacanze.


Non è la prima volta che i miei articoli hanno fatto suonare l’allarme sulle atrocità a venire. Prima dell’annessione della Crimea, ho attinto a una fiaba popolare russa, Teremok, per descrivere il futuro incerto dell’Europa. C’era una volta una casetta tranquilla nella foresta – un teremok – dove diversi animali selvatici vivevano tutti assieme. Un giorno, una rana bussò alla porta. «Toc, toc! Chi abita in questo teremok? Lasciatemi entrare, vorrei vivere anch’io con voi». Gli animali fecero entrare la rana, e tutti si congratularono della vita tranquilla e felice nella loro casetta. Qualche tempo dopo, aprirono la porta a Kyward, la lepre, e a Reynard, la volpe, tanto nel teremok c’era spazio per tutti. Ma poi arrivò Bruin, l’orso, che per quanto si sforzasse, non riusciva ad accomodarsi nel teremok. A un certo punto, montato su tutte le furie, con il suo peso l’orso schiacciò la casetta. E quella fu la fine del teremok, e della fiaba.

Gli avvertimenti lanciati nel recente passato non hanno suscitato nessun allarme. Nel 2014, subito dopo l’annessione della Crimea, scrivevo con ansia crescente che «nel ventunesimo secolo non esistono più le guerre locali, lontane da noi. Ogni guerra oggi è una guerra europea. E questa guerra europea è già cominciata».

Avevo previsto che l’annessione della Crimea, per mano di Vladimir Putin, avrebbe scatenato «un’ondata di patriottismo. Prima o poi quest’ondata è destinata a infrangersi e a quel punto Putin si vedrà costretto a ricorrere a qualche altro stratagemma». Scrivevo già allora come l’instabilità cronica dei Balcani, trascinatasi nel corso degli anni, avrebbe avviato enormi flussi migratori verso i Paesi europei, seguiti da «un’ondata ancora maggiore di rifugiati provenienti dall’Ucraina».

Allora, si era ancora in tempo per fermare l’aggressore. Ma i politici europei hanno preferito chiudere gli occhi davanti alla realtà per guadagnarsi il favore degli elettori. Anche gli elettori volevano la pace, in quei giorni: posti di lavoro, nessun aumento del costo della vita, e vacanze assicurate. Gli analisti russi più esperti e corrotti insistevano che l’Occidente doveva capire la posizione di Putin e fare concessioni. E oggi siamo arrivati a questo: ci ritroviamo nel bel mezzo di una guerra europea, a fare i conti con un’ondata di profughi senza precedenti in fuga dall’Ucraina, a chiederci come mai i nostri politici sono stati così ciechi. Nessuno ascolta più la voce degli scrittori. L’unica vera lezione che possiamo trarre dalla storia è purtroppo proprio questa, che la storia non insegna mai nulla.


In Germania, migliaia di intellettuali hanno sottoscritto una petizione per chiedere al governo di fermare l’invio di armi all’Ucraina, perché si rischiava di far scoppiare la terza guerra mondiale. «Vogliamo una politica di pace, non la guerra», dichiaravano. Ma la terza Guerra mondiale era già cominciata, nel 2014. Come si fa a porre rimedio alla cecità, se ci si ostina a non vedere?


Oggi ci si chiede: come e quando finirà questa guerra? La guerra contro la Germania nazista non si concluse con la morte di Hitler, bensì con una schiacciante sconfitta militare. Prima o poi la morte di Putin sarà inevitabile, non così la sconfitta della Russia.


La risposta poggia sull’autenticità. Alcuni zar sono veri, altri falsi. Se la Santa Russia allarga i suoi territori e i popoli si inchinano davanti all’autocrate di Mosca, i sudditi asserviti, che sudano e faticano e versano eroicamente il loro sangue per la sacra madre patria, si convincono che il loro destino è una benedizione del Cielo. A nulla vale sciorinare i distinguo su come lo zar sia arrivato al potere o come abbia governato i suoi soggetti. Può mandarli tranquillamente al macello, a milioni, e abbattere migliaia di chiese e fucilare i loro preti: ciò che conta è che lo zar è uno zar autentico,perché solo così il nemico si piegherà terrorizzato e la Sacra Terra di Russia si ingrandirà. Così è stato con Stalin.


Sul versante opposto, le disfatte militari e la perdita del benché minimo fazzoletto di Sacra Terra verranno viste dai sudditi dello zar come chiaro segnale del mancato favore divino: lo zar è illegittimo, è falso. Non è riuscito a sconfiggere i giapponesi? O a sottomettere la Cecenia? Allora l’uomo sul trono è un ciarlatano che vorrebbe spacciarsi per zar. Così è stato con Nicola II e Boris Yeltsin.


Putin ha legittimato la sua presidenza con la riconquista della Crimea, ma questa legittimità si sta rapidamente affievolendo per l’incapacità dimostrata nel piegare l’Ucraina. Il prossimo zar, a sua volta, dovrà giustificare il suo mandato mettendo a segno la vittoria finale nella guerra sferrata contro il mondo intero. E se per questo Putin la minaccia di ricorrere ad armi nucleari tattiche rientra nella logica della guerra ibrida, per il prossimo Putin il loro utilizzo potrebbe rivelarsi lo strumento indispensabile per restare saldamente al potere.


Anche il prossimo Putin sarà semplicemente un attore incapace di trovare un altro ruolo. Perché il suo ruolo è prescritto dall’intera architettura interna del potere, che non si cura di quante saranno le vittime del conflitto in Ucraina, in Russia o altrove; non si cura delle risorse da spendere, del numero di armi da dispiegare né del tasso di mortalità tra i suoi militari. E se la qualità della vita dovesse crollare in Russia? Pazienza, il regime non si è mai dato pensiero del benessere dei suoi stessi cittadini.


E chiunque faccia parte di questo ingranaggio di potere non teme affatto di attaccare l’Occidente. Dopo tutto, che cosa dovrebbe temere? Se un missile esplode nel territorio di uno stato membro dell’Alleanza atlantica, quali conseguenze? Nuovi colloqui, nuove dichiarazioni, nuovi appelli per la pace. Il mondo libero dovrebbe finalmente rendersi conto che non sta combattendo contro un dittatore pazzo, bensì contro un sistema di potere autonomo, aggressivo e autorigenerante.


L’antica struttura sociale dell’autocrazia russa è stata preservata nel magazzino della storia e tramandata nei secoli. Ed eccola pronta a mutar pelle per ricomparire sotto nuove spoglie: come Khanato dell’Orda d’Oro e lo zarismo di Mosca, come l’impero dei Romanov e l’Unione Sovietica comunista di Stalin, e più di recente la «democrazia controllata» di Putin. Oggi la Federazione russa cambia pelle ancora una volta. Che cosa emergerà dalle fondamenta indisturbate di una dittatura militare invincibile? Forse una libera democrazia costituzionale, che di propria iniziativa metterà al bando le armi nucleari? Ma vi sembra verosimile?


Anche prima della Seconda guerra mondiale la gente voleva la pace, prezzi stabili e vacanze serene. Anche allora gli elettori speravano che i governi democratici di Francia e Inghilterra avrebbero intavolato trattative di pace con Hitler, rinunciando alla guerra. Sappiamo benissimo come sono andate le cose, ricordando il celebre messaggio di Winston Churchill al suo popolo, in tutta la sua brutale e tragica onestà: «Non ho altro da offrirvi che sudore, fatica, lacrime e sangue».


Prima o poi sentiremo riecheggiare promesse simili e al posto delle belle vacanze gli elettori europei dovranno prepararsi ad affrontare grandi sacrifici, rinunce e ristrettezze, perché questo è il prezzo che dobbiamo pagare se vogliamo la pace.

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