Commentary on Political Economy

Wednesday 29 September 2021

 

UN MATTONE CINESE SULLA TESTA DI TUTTI

Un mattone cinese sulla testa di tutti

Dalla pandemia abbiamo imparato poco se consideriamo il caso Evergrande come uno scandalo tutto cinese. E ci interroghiamo, non senza una malcelata soddisfazione, sul dilemma di Xi Jinping che dovrà decidere se salvare il secondo gruppo immobiliare cinese, che dà lavoro a 163 mila persone, oppure lasciarlo fallire rischiando, per quanto è immaginabile in un regime, la rabbia sociale. E abbiamo imparato poco o forse nulla se, al pari di quanto è accaduto con altre crisi finanziarie globali, trascuriamo l’importanza dei rischi nascosti e dei comportamenti dei soggetti finanziari, illudendoci che la risoluzione di un caso cancelli d’incanto tutti i sintomi, non solo cinesi, della malattia. Si riparte e via, anche se le fragilità del sistema economico e finanziario mondiale restano irrisolte. 

Xi Jinping, presidente cinese
Xi Jinping, presidente cinese

Xi Jinping, presidente a vita, sogna di festeggiare nel 2049 il secolo della Repubblica popolare cinese, con il sorpasso sull’economia americana. Una seconda lunga marcia, dopo quella di Mao Zedong. Con le armi dell’economia più che con quelle dell’ideologia, tutt’altro che scomparse. Una celebre frase zen, attribuita a Mao, recita: «Quando il saggio indica la Luna, lo stolto guarda il dito». Molto abusata, per la verità. Forse bisognerebbe guardare a entrambi, il dito e la Luna. Nella giusta proporzione. L’aforisma si attaglia però bene al caso Evergrande che, grazie alla forza attrattiva della nostra lingua, espone nel marchio persino una parola italiana. 

L’identikit

Xu Jianyin, fondatore e timoniere del gruppo Evergrande
Xu Jianyin, fondatore e timoniere del gruppo Evergrande

Il gruppo è guidato da Xu Jianyin, Hui Ka Yan in cantonese, dichiarato un tempo «l’uomo più ricco della Cina » e capace di perdere — come segnalato da Guido Santevecchi sul Corriere— 200 milioni con il calcio, particolare già di per sé significativo nell’accendere qualche sospetto. E quando guardavamo alle città fantasma cinesi, enormi palazzoni disabitati — altro e ben più allarmante segnale di febbre finanziaria — forse siamo stati indotti a credere che l’esuberanza dell’economia cinese fosse tale da rendere profittevole la costruzione di interi quartieri senza abitanti. Come fossero un «polmone» necessario in una crescita tumultuosa e senza freni. Evergrande ha lanciato 778 progetti immobiliari in 223 città. Ma da sempre, anche nella Cina dei miracoli economici, della moltiplicazione dei miliardari, l’invenduto e il non pagato sono gli ingredienti fissi di ogni scandalo immobiliare. 

Il primo è visibile a occhio nudo; il secondo dovrebbe comparire nei bilanci. Gli artifici per dissimulare l’insolvenza sono molteplici ma lo schema di fondo è sempre quello del cosiddetto metodo Ponzi, una banale piramide finanziaria. Nulla di nuovo. Il caso Evergrande è la manifestazione clamorosa, nelle sue dimensioni (300 miliardi di dollari di debiti), di come i mercati abbiano raggiunto, per effetto dell’eccesso di liquidità e con tassi d’interesse storicamente bassi, prezzi difficilmente giustificabili. Le bolle nascoste non sono poche. In Cina poi l’esposizione degli enti parapubblici (state owned enterprises) non è contabilizzata nel debito pubblico, ma è, a tutti gli effetti, una contingent liability del governo centrale. 

Pechino ha da poco tempo stabilito nuove regole nell’emissione del debito privato (capitalizzazione, liquidità, uso della leva) e dunque si trova nell’imbarazzo di non smentire clamorosamente requisiti stringenti giudicati indispensabili. Quello di Evergrande è un Minsky Moment? Ovvero un momento di rottura del ciclo economico e finanziario come dall’elaborazione teorica dell’economista americano Hyman Philip Minsky? L’espressione in voga è un po’ abusata (mai come l’aforisma zen di Mao o di chi per lui), ma forse anche in questo caso bisogna avere una maggiore attenzione per le cause di fragilità e meno per lo choc (endogeno, non esogeno al di fuori del sistema). Vale la pena di ricordare che nella teoria di Minsky sono di maggior interesse gli choc endogeni, in particolare il rialzo dei tassi d’interesse. 

Le principali banche centrali si avviano, in forme diverse, a ridurre gli acquisti in chiave anti-pandemica, specie in un momento in cui il rialzo dell’inflazione assume connotazioni via via strutturali, e a uscire dai tassi zero o negativi. Siamo in un terreno per certi versi sconosciuto, perché non vi è mai stato nella storia monetaria un così massiccio rientro dall’emergenza. 

Dunque, la domanda che ci si dovrebbe porre, a maggior ragione guardando ma non da spettatori agli sviluppi del caso Evergrande, è se il sistema sarà in grado di reggere un seppur graduale inasprimento della politica monetaria o se piuttosto il grado di fragilità finanziaria non sia già sufficiente per scatenare prossimamente una crisi come quella osservata nel 2008-9 o nel 2020. (Il coautore di questo articolo, insieme a Nouriel Roubini, predisse le ultime crisi finanziarie). 

Le preoccupazioni

Gli elementi di preoccupazione non sono pochi. Non dovrebbero scomparire di fronte al sollievo — e in certi casi all’euforia come in Italia — per la ripresa economica. Nel real estate, cioè nell’immobiliare, la bolla non è solo cinese, ma riguarda anche altri mercati come Canada, Australia, Nuova Zelanda e, più vicino a noi, la Germania. L’Msci World Real Estate Index, che rappresenta il valore delle azioni degli sviluppatori immobiliari di media e grande dimensione in 23 Paesi, ha raggiunto, nell’agosto scorso, quota 230, un livello più che doppio di quello registrato nel 2006. Ricordiamo che la crisi immobiliare del 2007 diede avvio a quella finanziaria del 2008-9. 

I mercati azionari sono ai massimi e sembrano aver resistito finora, pur con qualche scossone, al ciclone Evergrande. Ma, al di là dei record del Dow Jones e del Nasdaq, è istruttivo guardare all’andamento dell’indice elaborato dall’economista americano, studioso della finanza comportamentale, Robert Shiller, l’acronimo è Cape (Cyclically adjusted price earnings ratio) che ha raggiunto il livello di 38,3, il più alto dal dicembre del 2000. Il massimo storico nel calcolare gli incrementi di valore fu raggiunto nel 1999 poco prima dello scoppio della bolla dei dot-com

L’altra faccia della medaglia è rappresentata dal collasso della volatilità. Per le azioni americane è misurata dal Vix Index. Ai minimi storici. Rassicurante, all’apparenza. Ma ciò spinge gli operatori, in una condizione di tassi bassi o negativi, a cercare rendimenti alternativi, in prodotti sempre di più fortemente illiquidi. I programmi di acquisto di titoli di ogni genere da parte delle banche centrali riducono la percezione del rischio. Molte società sono state poi indotte a emettere debito corporate quasi obbligatoriamente sopra la pari, nel momento in cui il coupon è anche debolmente positivo. La perdita in conto capitale è già incorporata se si va a scadenza. Ma gli operatori preferiscono rischiarla o subirla anziché pagare interessi negativi nel prestare soldi ai governi o nel tenerli su depositi bancari.

D’altra parte i corporate spread hanno raggiunto livelli di compressione mai visti in precedenza. Per esempio l’Ice BofA Bbb Us corporate Index (option adjusted) è caduto all’1,1 per cento, contro un massimo storico al 7,8 per cento toccato nel dicembre del 2008 e un minimo dello 0,7 per cento nell’agosto del 1997. Tutti segnali da non sottovalutare. 

Richard Koo di Nomura sostiene che siamo entrati in una Qe trap, una trappola per eccesso di liquidità. Nouriel Roubini, in un libro di prossima pubblicazione, parla di una vera e propria trappola del debito. Tornando al caso Evergrande, se il suo spericolato fondatore avesse scelto l’italiano per tutto il suo marchio, la saggezza popolare, almeno la nostra, avrebbe preso subito le contromisure. 

Una società sicura di essere grande è già di per sé sopravvalutata. Senza bisogno di andare in Borsa.

*Ceo Rosa&Roubini, docente Economia e Finanza, London School of Economics

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