Commentary on Political Economy

Monday 7 August 2023

1931-2023

Mario Tronti è morto. Addio al filosofo padre del marxismo operaista

Mario Tronti è morto. Addio al filosofo padre del marxismo operaista

Massimo teorico dell’operaismo, poi cultore del pensiero politico realista, sempre comunista e ammiratore di Lenin anche da senatore del Partito democratico. Il filosofo Mario Tronti, scomparso il 7 agosto all’età di 92 anni a Ferentillo (Terni), era una figura complessa e originale. Un intellettuale del Novecento, dichiaratamente di parte, «conservatore e rivoluzionario», che si era abbeverato sin da giovane ai «maestri del sospetto» Karl Marx e Friedrich Nietzsche, ma riconosceva anche l’importanza del senso religioso come antidoto alla mercificazione dei rapporti umani.

Di certo però a lasciare la traccia più profonda nella cultura della sinistra italiana non era stato il Tronti più maturo, quello che ragionava sull’«autonomia del politico» e che per molti anni era stato presidente del Centro per la riforma dello Stato fondato da Pietro Ingrao. A colpire e galvanizzare un’intera generazione di giovani irrequieti, futuri protagonisti del Sessantotto, era stato il poco più che trentenne direttore della rivista «Classe Operaia». La penna immaginifica che definiva i lavoratori industriali «rude razza pagana», tracciando paragoni arditi tra l’Italia degli anni Sessanta e la Russia del 1905, teatro della prima fallita rivoluzione che aveva visto la nascita dei soviet.

Nato a Roma il 24 luglio 1931, Tronti proveniva da una famiglia di estrazione popolare e aveva aderito al Partito comunista da ragazzo. Nel 1956, come segretario della sezione universitaria romana, era stato tra i firmatari della «lettera dei 101», che solidarizzava con la rivoluzione ungherese, giudicata viceversa reazionaria da Palmiro Togliatti e dal gruppo dirigente del Pci. Ma il distacco dall’ortodossia filosovietica non aveva indotto Tronti a rivalutare la socialdemocrazia, anzi lo aveva spinto più a sinistra, a collaborare con Raniero Panzieri, fondatore dell’operaismo italiano, e con la sua rivista «Quaderni Rossi», creata nel 1961.

L’idea di fondo che muoveva quella corrente culturale era che gli «operai massa» non specializzati addetti alla catena di montaggio, spesso emigrati di inurbazione recente, potessero diventare i protagonisti di una stagione di lotte sociali così intense da inceppare la macchina del «neocapitalismo» consumista e da arrestare lo scivolamento dei partiti di sinistra, il Psi ma in fondo anche il Pci, verso un approdo riformista. La crescente conflittualità dei primi anni Sessanta, nelle fabbriche e nelle piazze, sembrava rendere plausibile quella ipotesi.

Dopo essersi staccati da Panzieri, troppo legato a un approccio sociologico, nel 1964 Tronti, Toni Negri, Alberto Asor Rosa e altri combattivi intellettuali fondarono «Classe Operaia», una rivista dalla vita effimera, ma molto influente sui giovani insoddisfatti per la condotta troppo cauta della sinistra storica. Il primo degli editoriali di Tronti, intitolato Lenin in Inghilterra, prospettava una rottura di tipo rivoluzionario nelle realtà dove il capitalismo aveva raggiunto il punto più avanzato di sviluppo, ricongiungendo idealmente la visione della storia di Marx, che si aspettava il grande rivolgimento in Inghilterra, e la pratica politica di Lenin, che invece l’aveva realizzato nella Russia arretrata e contadina.

Gli scritti di quel periodo, davvero notevoli per il gusto estetizzante e il radicalismo ideologico, furono poi raccolti da Tronti nel libro Operai e capitale (Einaudi, 1966; DeriveApprodi, 2013), la sua opera più famosa e più letta, di cui si sarebbe nutrita un’intera generazione di militanti nel lungo Sessantotto italiano. Molto più tardi, nel libro La politica al tramonto (Einaudi, 1998), avrebbe ammesso gli errori compiuti osservando che lui e gli altri operaisti, immaginando un avvenire «rosso», erano caduti in un equivoco: «Il rosso all’orizzonte c’era: solo che non erano i bagliori dell’aurora, ma del crepuscolo».

Bisogna aggiungere che anche ai tempi di «Classe operaia» Tronti non aveva mai pensato di creare una nuova formazione politica. Allergico alle esperienze minoritarie, atterrito dall’idea di creare una piccola setta, ambiva a condizionare il Partito comunista e il sindacato, considerati invece irrecuperabili da gran parte dei suoi compagni di viaggio, primo fra tutti Negri, che poi fondarono il movimento di Potere operaio.

Invece Tronti era rimasto nel Pci, sia pure su posizioni sempre critiche. Divenuto docente di Filosofia morale e poi di Filosofia politica all’Università di Siena, dove aveva insegnato per molti anni, aveva rivolto la sua ricerca alla dimensione dello Stato e del potere, applicandosi su autori come Niccolò Machiavelli, Thomas Hobbes, persino il teorico tedesco del decisionismo (e aderente al Terzo Reich) Carl Schmitt.

Il fatto è che per Tronti non si trattava tanto di ragionare sulla crisi del marxismo, tema molto in voga tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, ma di affrontare una più complessiva inadeguatezza del «soggetto politico moderno», vale a dire di strutture come lo Stato-nazione, la forma partito, il movimento operaio nel suo complesso. Da quella analisi nacque un’altra rivista, edita da Einaudi, «Laboratorio politico», che vide Tronti nelle vesti di coordinatore sollecitare una discussione spregiudicata con personalità come Massimo Cacciari e Giacomo Marramao.

Anche in quel caso la pubblicazione non durò a lungo, dal 1981 al 1983, ma trasmise segnali importanti di consapevolezza circa lo stallo in cui era finita la politica del Pci, partito al quale gran parte dei collaboratori apparteneva o era vicino.

In anni più recenti Tronti aveva pubblicato diversi saggi di ripensamento sull’esperienza politica novecentesca e non aveva neppure disdegnato di partecipare direttamente all’attività parlamentare. Convinto che la caduta del blocco sovietico e la trasformazione postindustriale del capitalismo avessero segnato un tornante decisivo della storia, non si stancava di rimproverare agli eredi del Pci uno sconcertante vuoto teorico.

Si era persa, sottolineava, la capacità di «tenere insieme la visione dell’avvenire e l’attenzione al quotidiano», mentre il mondo del lavoro era stato completamente «abbandonato a sé stesso». D’altronde Tronti riconosceva che il progetto marxiano della società senza classi non aveva alcun fondamento scientifico. Ma al realismo riteneva fosse indispensabile unire la passione. In questo il suo atteggiamento aveva davvero un respiro religioso, che lo portava a paragonare San Paolo e Lenin. Un parallelo ardito, senza dubbio. Ma la filosofia ha bisogno di pensatori spregiudicati come Tronti. Aiutano a riflettere anche chi li sente molto distanti.

7 agosto 2023, 15:22 - Aggiornata il 7 agosto 2023, 16:56

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