Commentary on Political Economy

Tuesday 22 August 2023

 

La crisi cinese vista da Taiwan, «è finità l’età dell’oro, colpa della politica»

DAL NOSTRO INVIATO TAIPEI Quanto è seria, strutturale e durevole la crisi dell’economia cinese? In Occidente, soprattutto in America, la «fine del miracolo» è il tema ricorrente di molte analisi. C’è sempre il dubbio però che il nostro pessimismo possa essere «interessato», cioè influenzato da una congiuntura geopolitica in cui i rapporti con Pechino sono tesi, quando non apertamente antagonisti. Perciò cerco una verifica da un punto di vista molto diverso: Taiwan. Mi trovo a Taipei da qualche giorno, quindi a poca distanza dalle coste cinesi e in un osservatorio privilegiato, dove si studia la Repubblica Popolare con molta attenzione. Contrariamente a quel che si potrebbe credere, Taiwan non ha uno sguardo ostile sulla Cina, soprattutto quando si parla di economia. Al contrario, quest’isola pur bersagliata dalle manovre militari dell’Esercito Popolare di Liberazione – anche in queste ore – non ha alcun interesse a veder affondare l’economia cinese.

I capitalisti taiwanesi furono i primi a investire sulla terraferma non appena Deng Xiaoping nell’era post-maoista lanciò la transizione verso l’economia di mercato, cioè dai primi anni Ottanta. La ricchezza di Taiwan è legata al successo delle sue imprese sul vicino continente, a cominciare dai colossi Foxconn e Tsmc. Oggi le imprese taiwanesi danno lavoro a 24 milioni di dipendenti nella Repubblica Popolare, cioè tanti quanto l’intera popolazione dell’isola (vecchi e bambini inclusi). Se affonda l’economia del gigante vicino, per l’isola saranno guai. Perciò Taipei non tifa «contro», anzi ha buone ragioni per sperare che le difficoltà dell’economia cinese siano passeggere. Eppure trovo qui un pessimismo analogo a quello che ho lasciato negli Stati Uniti.

Un osservatore autorevole è l’economista Peter Chan, dell’Istituto Relazioni Internazionali presso la National Chengchi University di Taiwan. Riassumo qui la sua analisi sui problemi che affliggono la seconda economia mondiale sotto la guida di Xi Jinping. «La causa principale del rallentamento nella crescita – mi dice Chen – sta nei cambiamenti strutturali avvenuti per volontà del regime. Xi Jinping ha introdotto profonde distorsioni nell’economia di mercato. La seconda spiegazione, è che lui si circonda di un personale selezionato in base alla fedeltà politica, non più di tecnocrati competenti sul terreno economico. Il suo primo ministro, ad esempio, è sprovvisto di esperienza internazionale. Ora, Pechino deve affrontare trasformazioni tremende nel contesto mondiale, a cominciare dalle pressioni americane, e queste aggravano le difficoltà economiche interne. Ma Xi non riceve i consigli giusti per affrontare queste sfide. Anche se qualcuno nel suo entourage capisce di economia non ha il coraggio di contraddirlo e di presentargli opzioni diverse. Così si consolida la svolta a sinistra di Xi, che ha esacerbato le debolezze interne».

Per «svolta a sinistra», Chen intende il ritorno di centralità delle imprese statali, e le varie iniziative che hanno colpito l’imprenditoria privata (a cominciare dai giganti digitali come Alibaba) o gli investitori stranieri. Questa svolta secondo lui crea sfiducia tra gli investitori, il che aggrava problemi come la disoccupazione giovanile e può sfociare in tensioni sociali.

L’economista taiwanese condivide un verdetto che emerge da molte analisi americane: «L’età dell’oro, quell’epoca segnata da trent’anni di rapida crescita cinese, è proprio finita». L’esperto della Cina si dichiara «non ottimista, né nel breve, né nel medio, né nel lungo termine». Forse, aggiunge, era comunque destinata ad esaurirsi, sarebbe stato difficile mantenere quel ritmo di sviluppo molto più a lungo. Più un’economia diventa ricca, più la turbo-crescita legata alle fasi di decollo è ardua da sostenere. Ma alcuni errori specifici di questa leadership hanno anticipato l’esaurirsi del dinamismo. Osserva che la crescita del Pil è trainata da quattro motori: gli investimenti, i consumi, le esportazioni, la spesa pubblica. I primi tre di questi motori non funzionano più come prima.

«È una crisi fabbricata dalla politica», insiste, e si sovrappone alla «trappola di Tucidide»: cioè al fatto che l’America sente che la sua posizione nel mondo è minacciata da questa Cina e quindi continuerà a prendere misure che contribuiscono a frenarne l’ascesa (come le restrizioni sulle vendite di tecnologie avanzate).

Tuttavia Chen prende le distanze da un pessimismo eccessivo che sconfina con il catastrofismo: «Viste le dimensioni continentali dell’economia cinese, non vi aspettate che crolli». Tra le contromisure in atto cita la dottrina di Xi Jinping sulla «economia duale» o «doppia circolazione»: un termine arcano, che sta a significare semplicemente l’affiancarsi di una domanda interna al tradizionale traino delle esportazioni. Invita a non sottovalutare «la capacità collettiva del popolo cinese di resistere e sopportare privazioni, molto superiore a quella degli occidentali». Contro le profezie apocalittiche su un tracollo cinese lui sottolinea la «straordinaria capacità di lavoro dei cinesi». Non sarà facile sostituirli, sostiene, e cita un aneddoto che ha per protagonista una delle più grandi imprese taiwanesi, quella Foxconn che nei suoi stabilimenti sul territorio cinese assembla gran parte dei telefonini e tablet di Apple. «Adesso Foxconn per adattarsi al nuovo quadro geopolitico investe in Messico. Ma il suo management è rimasto colpito dai livelli di assenteismo della manodopera messicana quando c’è una partita di calcio importante. Sono cose impensabili in Cina. Gli investimenti messicani di Foxconn sono meno redditizi di quelli cinesi. Perfino in Vietnam gli imprenditori taiwanesi che vi hanno delle fabbriche subiscono problemi sconosciuti in Cina, come gli scioperi o i blackout elettrici».

Interpello Chen su una teoria che oggi sembra passata di moda, ma che ebbe fortuna dopo la crisi americana del 2008 scatenata dal crac dei mutui subprime. A quell’epoca la Repubblica Popolare fu l’unica grande economia a salvarsi dalla tremenda recessione globale. Ci riuscì attivando importanti programmi di spesa pubblica, riportando in auge il dirigismo di Stato. All’epoca c’era ancora Hu Jintao alla guida del Paese, ma il successo di quell’operazione sembrò prefigurare la sterzata a sinistra di Xi Jinping. In Occidente molti guardarono con ammirazione alla forza stabilizzante di Pechino in quel frangente. In un certo senso, la recente «riscoperta” della politica industriale da parte di Joe Biden» il rilancio di programmi di aiuti pubblici e sussidi, è stata vista anche come la risposta al successo cinese su quel terreno.

Chen ha una visione più critica su quel che accadde 15 anni fa. «La risposta cinese alla crisi americana del 2008 – dice l’economista taiwanese – fu affidata soprattutto a una maxi-manovra di spesa pubblica da 4.000 miliardi di renminbi. Il suo successo apparente nel breve termine nascondeva una serie di effetti collaterali di cui oggi misuriamo le conseguenze: sprechi, debiti, bolle speculative. Tanta parte di quella spesa pubblica andò a finanziare non infrastrutture produttive bensì progetti immobiliari inutili e insostenibili. Lo stesso vale per il versante internazionale cioè gli investimenti esteri nei progetti della Belt and Road Initiative (le Nuove Vie della Seta). Anche lì ci furono troppi investimenti sbagliati, e una parte di quei capitali non verranno recuperati».

La sterzata a sinistra di Xi Jinping, aggiunge Chen, non ha impedito alla Cina di avere diseguaglianze sociali peggiori dell’America. «Quest’ultima versione del modello cinese – conclude – non vale la pena di essere imitata o emulata. L’attacco alle imprese private avviene imponendo un ulteriore arretramento allo Stato di diritto, e per questo si pagano dei prezzi anche in termini di crescita e di condizioni sociali».

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