Commentary on Political Economy

Sunday 27 August 2023

Fukushima, acqua radioattiva in mare: c’è un retroscena cinese dietro le proteste

C’è un versante cinese nella vicenda del rilascio di acque radioattive dalla centrale nucleare di Fukushima. A creare un’ondata di indignazione mondiale contro quel rilascio ha contribuito in modo determinante il governo di Pechino. Le autorità della Repubblica Popolare si sono scatenate contro quella decisione del Giappone, minacciando sanzioni che ora sono divenute operative. Piccolo problema: il livello di radioattività delle acque della “maledetta” Fukushima è inferiore a quello delle acque che normalmente vengono rilasciate nei fiumi o in mare dalle numerose centrali nucleari della Repubblica Popolare cinese.

Questi dati sono di dominio pubblico, tant’è che l’obiezione è stata sollevata perfino da alcuni cittadini cinesi sui social media. Dunque: la limitata radioattività delle acque è un crimine contro l’ambiente e contro l’umanità se fuoriesce da una centrale giapponese, ma non conta se proviene (in misura superiore) da svariate centrali cinesi. A parte la tradizionale disinvoltura con cui il regime comunista di Pechino manovra le menzogne a scopo propagandistico, è opportuno chiedersi che cosa pensi di ottenere Xi Jinping con questa forsennata campagna anti-nipponica. Se lo chiede con il consueto acume uno dei miei osservatori preferiti sulla Cina, Bill Bishop, autore della newsletter Sinocism.

Bishop parte dal fatto che le autorità cinesi stanno applicando – come promesso – delle sanzioni economiche molto dure dopo il rilascio delle acque di Fukushima: l’embargo totale di tutte le importazioni di pesce e frutti di mare dal Giappone. Queste voci costituiscono una percentuale importante delle importazioni cinesi dal Sol Levante, inoltre servono ad approvvigionare una miriade di ristoranti nipponici sul territorio della Repubblica Popolare. Ma visto che il Giappone non ha nessuna intenzione e nessun motivo per capovolgere una decisione che ha preso dopo molti anni di valutazioni e studi scientifici, dove andrà a parare l’offensiva di Pechino e quali sono i suoi veri obiettivi? Tra l’altro, a rigore, se le autorità cinesi vogliono essere coerenti con le descrizioni apocalittiche che hanno fatto sugli effetti di quelle acque, via via che da Fukushima si diffondono nell’oceano e bagnano zone circostanti, la messa al bando di pesci e frutti di mare “per ragioni di sicurezza sanitaria” andrebbe estesa via via ad altri paesi inclusa le stesse zone costiere della Cina. E’ improbabile che questo accada.

Siamo agli albori – si chiede Bishop – di un’altra ondata di odio contro il Giappone fomentata dal partito comunista, come quella che accadde l’ultima volta nel settembre 2012 cioè all’inizio del “regno di Xi”? (Ma di manifestazioni del genere ce ne furono anche all’epoca del suo predecessore Hu Jintao, le osservai da testimone in prima linea quando abitavo a Pechino, ne trovate tracce nei miei libri “Il secolo cinese” e “L’impero di Cindia”).

Bisogna aspettarsi che le prossime vittime siano le numerose multinazionali nipponiche che hanno fabbriche e reti commerciali sul territorio della Repubblica Popolare? Cominceranno, come negli episodi precedenti, proteste di massa accompagnate da episodi di vandalismo e aggressioni contro i simboli della presenza giapponese in Cina? La mia interpretazione – non particolarmente originale – è che il vero obiettivo è un altro. Xi vuole colpire l’avvicinamento strategico in corso fra Giappone, Stati Uniti, Corea del Sud sancito dal summit di Camp David. Quel “triangolo” si aggiunge ad altre iniziative (Aukus e Quad) con cui gli Stati Uniti cercano di rafforzare la rete di alleanze e il dispositivo di contenimento dell’espansionismo cinese in Asia.

Di tutti gli alleati dell’Occidente in Asia il più ricco, tecnologicamente avanzato e anche militarmente più significativo è il Giappone. Lo sottolineo trovandomi a Taiwan, un’isola che in caso d’invasione conta sull’aiuto nipponico oltre che americano. Resta che la diplomazia delle sanzioni economiche, manovrata da Pechino da molti anni e contro molti bersagli (le vittime includono Norvegia e Lituania in Europa; Filippine e Australia nell’Indo-Pacifico; Canada in Nordamerica), non sembra aver ottenuto i risultati voluti.

Torno però su Fukushima per ricordare che non sono soltanto i cinesi a fare di quella centrale un simbolo apocalittico. L’originalità dell’allarme cinese è che viene dal paese con la più vasta capacità nucleare del pianeta (la Repubblica Popolare ha molte più centrali atomiche dell’America o della Francia). Però attorno a Fukushima ci sono allarmi di altra natura e origine. Voglio ricordare quindi una sintesi dei dati su quell’incidente e delle sue conseguenze, che potete trovare nel mio libro più recente, “Il lungo inverno”. Quel che segue ne è un estratto. Lo shock di Fukushima portò alla chiusura di tutti i 54 reattori del paese. Anche se va ricordato che il bilancio certo di quell’incidente è limitato: un morto e 16 feriti, cioè meno vittime rispetto a tanti tragici ma “banali” incidenti sul lavoro che affliggono i cantieri italiani. Solo una valutazione estremamente larga e prudenziale delle vittime indirette – una stima controversa, che non raccoglie un consenso unanime nella comunità scientifica, per l’attribuzione a Fukushima di malattie non necessariamente collegate (inclusi traumi psichici, depressioni e suicidi) – è arrivata ad alzare il bilancio fino a quota 570.

In ogni caso l’effetto immediato dell’incidente di Fukushima spostò l’opinione pubblica: all’epoca il 70% dei giapponesi volevano l’addio al nucleare. Oggi la situazione si è esattamente capovolta: il 70% sono d’accordo per tornare a dipendere dall’energia atomica. Questo rovesciamento del sentimento pubblico consente al premier Kishida Fumio di passare all’azione: il 24 agosto 2022 ha annunciato la riapertura delle centrali inattive ed anche la costruzione di una nuova generazione di reattori. Al momento sono tornati in attività 10 reattori, sui 17 che hanno già superato tutti i test di sicurezza resi più rigorosi dopo Fukushima. Sono in tutto 33 i reattori destinati a tornare a generare elettricità; in attesa che vengano costruiti quelli di nuova generazione. …

Gli argomenti anti-nucleari sono cambiati nel tempo. Oggi il fronte contrario parla soprattutto dei costi eccessivi, che sono una realtà. Un esempio classico è quello della centrale Hinkley Point C la cui costruzione è quasi ultimata sulla costa di Bristol, nella parte occidentale del Regno Unito. Quando nel 2013 il governo di Londra firmò il contratto con la utility francese Edf per questa centrale, il megawatt-ora prodotto con i reattori di Hinkley Point doveva costare 92 sterline. E a quel tempo un megawatt-ora prodotto da pale eoliche costava 125 sterline. Oggi, fra ritardi di costruzione e aumenti di costi, l’elettricità nucleare di Hinkley costerà sicuramente di più di quanto preventivato nove anni fa; intanto quella eolica è scesa a 50 sterline. Gli avversari del nucleare che in passato prevedevano un’Apocalisse in caso di incidente, oggi parlano il linguaggio delle convenienza economica: sole e vento costano meno. Non è un caso se l’argomento della sicurezza è scivolato nelle retrovie: quell’argomento non regge. Includendo i due più gravi incidenti nucleari della storia – i quattromila morti di Cernobyl e le 570 vittime “indirette” che vengono attribuite a Fukushima – l’energia atomica resta tra le più sicure che abbiamo, è alla pari con vento e sole. La mortalità misurata in proporzione all’energia generata, vede in testa il carbone con 24,6 decessi per terawatt-ora (soprattutto malattie da inquinamento), seguito da petrolio, biomasse, gas naturale, idroelettrico. Il numero di vittime del nucleare per terawatt-ora è 0,03 cioè paragonabile a eolico e solare i quali hanno anche loro una mortalità, sia pure bassa (da incidenti, o da inquinamento perché il loro ciclo di produzione non è “pulito” al 100% come si crede). Tutti questi dati sono controllabili, una loro sintesi si può trovare qui.

Come si arriva a questa conclusione? Ogni forma di generazione di energia elettrica – come ogni attività umana, purtroppo – ha un bilancio di vittime. Ci sono gli incidenti di lavoro, che accadono nei vari passaggi: dalla fabbricazione dei macchinari e delle infrastrutture fino al funzionamento delle centrali stesse. Ci sono le malattie – soprattutto cardiache e respiratorie – provocate dall’inquinamento. Non esistono fonti veramente “pulite”, questo è il piccolo, sporco segreto che molti ambientalisti preferiscono ignorare. Per fabbricare un pannello fotovoltaico si estraggono silicio e altri minerali, in miniere dove accadono incidenti, e dove si generano emissioni carboniche, particelle tossiche, ecc. Per trasportare una pala eolica si usano camion che vanno ancora a diesel. Chi calcola la mortalità associata ad una particolare fonte di energia, quindi, fa una stima di tutte le vittime dirette e indirette. E’ così che si arriva a questa conclusione che appare contro-intuitiva a molti, non necessariamente militanti dell’anti-nucleare, ma preoccupati per la sua presunta pericolosità. L’insicurezza del nucleare fa presa sull’immaginario collettivo ma non è fondata sui fatti. Forse anche per questo i suoi nemici hanno cambiato argomenti. L’obiezione nuova, quella sui costi, è contestabile. Il nucleare costa troppo perché abbiamo smesso di investire, quindi sono venute meno le economie di scala (i guadagni di produttività e di efficienza derivanti dall’aumento di costruzioni di nuovi reattori) ed è stato rallentato il progresso tecnologico. Non a caso sono diventati più competitivi i reattori nucleari fabbricati dalla Cina, che ha continuato a scommettere su questa energia.

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