Commentary on Political Economy

Tuesday 15 August 2023

Sta nascendo una nuova Nato in Asia? Perché la Cina teme il super vertice tra Usa, Corea del Sud e Giappone

Sta nascendo una Nato in Asia? La tesi, o per meglio dire l’allarme, viene da Pechino. Così infatti i media governativi cinesi presentano il vertice trilaterale che questo venerdì riunisce a Camp David i leader di Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud. La lettura cinese può sembrare una forzatura, ma è pur vero che il summit viene definito storico: non si era mai tenuto nulla di simile in quel formato, tantomeno in una sede densa di reminiscenze come la residenza presidenziale di Camp David. L’intesa fra i tre contiene in effetti molte novità; ed è orientata a creare uno scudo difensivo verso le due principali minacce in quell’area: anzitutto la bellicosa e imprevedibile Corea del Nord, poi la stessa Repubblica Popolare cinese.

E’ ancora presto per parlare di una Nato asiatica, però questo triangolo va ad aggiungersi al dispositivo militare Aukus (difesa congiunta nel Pacifico tra Stati Uniti, Regno Unito, Australia) e al club geopolitico Quad che riunisce un quadrilatero di democrazie dell’Indo-Pacifico (sempre gli Usa al centro, in questo caso attorniati da India Giappone Australia).

Per la propaganda di Xi Jinping tutto ciò è la prova che l’America fomenta una “mentalità da guerra fredda”. Pechino però non è immune da questa sindrome. L’aver voluto celebrare di recente il 70esimo anniversario della “vittoria” contro gli Stati Uniti nella guerra di Corea del 1953 – iniziata da un’aggressione del Nord comunista contro il Sud – insieme ai rappresentanti di Putin e Kim Jong-Un, è stato un gesto con cui la Cina ha tradito la sua versione nostalgica dello scontro tra blocchi.

Il summit di Camp David è all’insegna di due grandi temi: la condivisione di valori tra liberaldemocrazie, e la sicurezza. Ha un obiettivo forte, la cosiddetta “istituzionalizzazione” dei rapporti fra i tre alleati. Cosa significa? Vuol dire dare una struttura permanente al loro rapporto, che spazia dalla cooperazione nell’intelligence alla difesa anti-missilistica, fino alle politiche di tutela del know how tecnologico. La minaccia immediata e visibile da fronteggiare è la Corea del Nord che continua ad intensificare i suoi test missilistici e la sua costruzione di arsenali nucleari. Dietro c’è una minaccia meno diretta ma immanente, l’espansionismo militare della Repubblica Popolare in quell’area. Istituzionalizzare, creando per esempio una segreteria permanente del triangolo, dà l’idea che il paragone con la Nato è pertinente, anche se in Estremo Oriente siamo ancora a uno stadio molto embrionale rispetto alle strutture militari dell’Alleanza Atlantica. Istituzionalizzare vuol dire anche garantire una durevolezza del rapporto fra alleati al di là della congiuntura politica e dei cicli elettorali: far sì che la cooperazione militare avanzata non possa essere rimessa in discussione ad ogni alternanza di governo a Seul (dove si vota presto), a Tokyo, e naturalmente anche a Washington.

Il non-detto, è che bisogna rassicurare gli alleati in caso di un ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. La prospettiva di una vittoria di Trump alle elezioni dell’anno prossimo preoccupa giapponesi e sudcoreani, vista la tendenza isolazionista del candidato repubblicano e il suo disprezzo verso le alleanze. Questa preoccupazione ha già provocato un effetto che molti considerano inquietante: la riapertura di un dibattito sia in Giappone sia in Corea del Sud sulla costruzione di armi nucleari autonome per non dipendere dalla deterrenza americana. Ormai una maggioranza dell’opinione pubblica sudcoreana è favorevole all’arma atomica: lo si capisce, visto l’incombere del nucleare nordocreano in mano a Kim Jong-Un. La dottrina strategica di Washington è contraria a questa proliferazione nucleare, sia pure tra alleati. Da sempre l’America pensa che sia pericolosa, il Pentagono ritiene che una corsa all’armamento nucleare a Tokyo e Seul può destabilizzare l’area. Ma se gli Stati Uniti vogliono bloccare questa evoluzione, devono fornire garanzie che il loro ombrello nucleare continuerà a proteggere gli amici dell’Estremo Oriente: è un’altra logica stringente dietro il vertice di Camp David e l’obiettivo di istituzionalizzare l’alleanza in modo che sopravvivere a prescindere da chi arriverà alla Casa Bianca nel 2024 o dopo.

Altri temi all’agenda del summit sono al confine tra difesa, sicurezza, ed economia. Sarà al centro della discussione la resilienza delle catene di produzione industriale: come evitare che siano alla mercè delle forniture cinesi, in particolare in settori tecnologici come i semiconduttori, le batterie elettriche, i materiali essenziali (terre rare, minerali e metalli) dove la Repubblica Popolare ha finora una posizione dominante.

Quelli che si incontrano a Camp David sono i leader di tre superpotenze tecnologiche: discuteranno la rispettiva adesione all’embargo di Joe Biden su forniture di tecnologie avanzate a Pechino. Il Giappone, e ancor più la Corea del Sud con Samsung, hanno delle lobby industriali per le quali la perdita del mercato cinese è un sacrificio pesante. Un colosso come Samsung finora ha continuato a vendere semiconduttori alla Repubblica Popolare e a fabbricarne negli stabilimenti che possiede sul territorio cinese, anche se di recente ha accettato di cessare le forniture di alcune tipologie sofisticate. Sia Giappone che Corea del Sud peraltro subiscono l’attrazione dei generosi sussidi che Biden offre a chi costruisce nuove fabbriche di semiconduttori sul territorio Usa. Qui ritroviamo un tema familiare nel dialogo tra Stati Uniti e Unione europea: gli alleati, perfino quando convergono nell’analisi della minaccia cinese, sono critici verso forme di protezionismo americano dal quale si considerano danneggiati. E’ un terreno sul quale Biden deve offrire compromessi, per non sentirsi accusato di applicare la sua versione dello slogan trumpiano “America First”.

Se a Camp David è destinato a nascere l’embrione di una “Nato asiatica” – con tutte le differenze del caso – lo si deve comunque alla politica di Xi Jinping. I continui incidenti nel Mare della Cina meridionale (ancora di recente contro le Filippine) hanno alzato il livello di preoccupazione sull’aggressività di Pechino. Lo stesso vale per la questione di Taiwan, che aleggia sul vertice. La rilegittimazione di Kim Jong-Un, che appena un decennio fa veniva trattato come un paria dagli stessi cinesi, e oggi viene vezzeggiato come un rispettabile alleato (nonché fornitore di armi a Putin); la scelta di Xi Jinping di appoggiare di fatto l’aggressione all’Ucraina: tutto questo ha innescato in Estremo Oriente dinamiche di autodifesa non molto diverse da quelle in atto in Europa. Ma Giappone e Corea del Sud avevano assaggiato prima di chiunque altro delle sanzioni unilaterali decise da Pechino per castigarli di qualche “sgarro” in politica estera: il riesame sulla Cina era cominciato per loro ancor prima dell’Ucraina, questa guerra lo ha accelerato.

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