Commentary on Political Economy

Tuesday 17 October 2023

 

La «mia» Bruxelles colpita a morte, come nel 2016. Cosa abbiamo imparato? | Oriente Occidente di Federico Rampini

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È scattato il «processo al Belgio» e si cominciano a enumerare tutte le colpe dell'Occidente. Ma i terroristi non sono prodotti dei ghetti e del disagio, quello di ieri non è nemmeno cresciuto in Belgio, spesso sono figli di famiglie benestanti che nel radicalismo religioso trovano un alibi al loro risentimento

Ci ho vissuto 15 anni – infanzia e adolescenza – in quella Bruxelles che oggi è un covo dei jihadisti d’Europa. Non ho mai smesso di frequentarla visto che ci sono rimasti sempre i miei genitori, ora mia mamma da sola. È rimasta la mia casa europea, con tanti amici da frequentare. Ero lì ieri sera, mentre due svedesi innocenti venivano assassinati in nome della jihad. E come al solito, automaticamente, è scattato il «processo al Belgio».

La vittima deve essere colpevole… Quando conosci da una vita una città, quando la abitano alcuni dei tuoi migliori amici, e pezzi della tua vita sono incollati al paesaggio locale, diventi allergico alle superficialità, agli stereotipi. Non sopporti i banali luoghi comuni usati da chi cerca una spiegazione facile alle tragedie. Per esempio: di fronte a fatti terribili, angosciosi e complessi, molti diventano di colpo marxisti. Nel formato “bignamino” del marxismo, quello per cui ogni cosa deve spiegarsi con la realtà economica sottostante, i rapporti sociali, le classi, lo sfruttamento capitalistico. Ecco che secondo questa versione di comodo la jihad penetra perché i giovani di origini arabe o nordafricane sarebbero prigionieri di ghetti, marginalizzati, intrappolati in condizioni economiche disagiate.

Ma davvero? I ghetti per immigrati a Bruxelles io li ricordo bene. Ci vivevano i nostri, di immigrati, gli italiani. Anni Cinquanta, Sessanta: allora sì, il Belgio era un paese razzista. I nostri immigrati andavano a morire per estrarre il carbone nelle miniere della Vallonia (tragedia di Marcinelle, 8 agosto 1956, l’anno della mia nascita: 262 morti di cui 136 italiani). Era l’epoca in cui i padroni di casa belgi alle finestre degli appartamenti da affittare attaccavano l’avviso “Niente cani, niente italiani”. I figli di quegli immigrati non riuscivano a finire la scuola dell’obbligo.

Elementari, medie, liceo, le ho fatte tutte alla Scuola europea di Bruxelles-Uccle, una di quelle che oggi sono chiuse per sicurezza. Proprio perché ho l’Europa nel sangue, mi sono sentito molto italiano: l’unione con i nostri vicini europei mi sembrava naturale, ma avevo bisogno di aggrapparmi a un’identità, per non soccombere nel confronto con i miei compagni di banco francesi e tedeschi, sicuri di venire da paesi più potenti.

Per rendere realistica la mia percezione dell’Italia, mi bastava spingermi nei quartieri poveri di Bruxelles, quei bassifondi che allora erano dietro la Place Jourdan, attorno alla Gare du Midi, o nel rione di Anderlecht. Là c’era l’Italia dei nostri emigranti, che ancora negli anni Sessanta affluivano in Belgio come minatori, operai, muratori, camerieri, ciabattini, donne delle pulizie. Cominciai a frequentarli grazie a un sacerdote bresciano, don Bruno Ducoli. Era il mio prof di religione alla Scuola europea; era soprattutto impegnato nel lavoro con gli immigrati: per aiutarli a superare i ritardi scolastici, ad acquistare coscienza dei propri diritti, a organizzarsi sindacalmente e politicamente.

Sotto la direzione di don Bruno da adolescente andavo a lavorare nei loro corsi serali di recupero, li aiutavo a fare i compiti. I miei coetanei che incontravo nel “Centro di azione sociale italiano – Università operaia” erano la seconda generazione, figli d’immigrati.

Quei ragazzi m’insegnavano cosa voleva dire concretamente inserirsi nell’Europa del Nord portandosi dietro la zavorra della nostra questione meridionale; e dovevano adattarsi a un ambiente urbano già in piena rivoluzione sessuale dopo essere stati allevati nella morale cattolica del nostro Sud. I miei coetanei figli di muratori e di cameriere subivano ogni giorno il razzismo dei belgi, nella scala delle etnìe inferiori erano appena un gradino più su dei marocchini, due gradini sopra i congolesi. Su quei ragazzi venuti dal Sud il facile insulto “italiani mafiosi”, lanciatogli a scuola o al bar o al lavoro, lasciava delle ferite vere. I sindacati belgi, moderati e anticomunisti, tenevano ai margini i nostri operai. Ma quel nucleo di amici che si formò attorno alla scuola serale di don Bruno, si allargò fino a diventare un’organizzazione in difesa degli immigrati.

I miei coetanei cresciuti nei quartieri degradati di Bruxelles seppero evitare il razzismo dei poveri, anzi diventarono la punta avanzata di un movimento multietnico, riconosciuto come un interlocutore politico dal governo. Dopo anni di lotte, grazie a loro gli immigrati conquistarono il diritto di voto in Belgio. Tutti gli immigrati: compresi i nordafricani, benché extracomunitari.

È questa lezione a tornarmi in mente ogni volta che Bruxelles è stata colpita da attentati terroristici di matrice islamista. In particolare mi è tornato in mente Muhammad. Due volte a settimana, dopo la scuola lo aiutavo a fare i compiti. Lettura, dettato, algebra. Avevo sedici anni, lui undici. Ogni tanto m’invitavano a casa i suoi genitori per la merenda: tè alla menta, pasticcini al miele e pistacchi, tipo baclava. Il nostro mondo comune era a ridosso di quella Rue de la Loi che nel 2016 molti hanno imparato a situare nelle mappe, tragicamente, per la strage nel metrò, stazione Maelbeek. Non ancora invasa come oggi da nuovi palazzi che ospitano istituzioni internazionali, nei primi anni Settanta quella zona centrale era abitata da immigrati. Marocchini come Muhammad, insieme a italiani e spagnoli, greci e tunisini. Tra “noi” e “loro”, cioè tra mediterranei-cattolici e mediterranei-islamici, allora colpivano soprattutto le somiglianze, non le differenze. Nel weekend c’incontravamo a fare la spesa al mercato della stazione, la Gare du Midi, dove le bancarelle dei marocchini erano un profusione di colori e odori del nostro Sud.

C’era un’altra cosa in comune, oltre alla nostalgia delle stagioni e dei sapori, dei colori e dei profumi del nostro Mediterraneo. L’immigrato italiano o spagnolo, e quello nordafricano, erano uniti dalla stessa aspirazione. Integrarsi. Farsi accettare. Essere all’altezza di una società nordeuropea, che si percepiva come un traguardo, una conquista. Era la ragione per cui il papà di Muhammad preferiva parlargli in uno stentato francese; bisognava ridurre le differenze con la popolazione locale. Proprio come i padri operai dei bambini siciliani e sardi, calabresi e veneti, tutti decisi ad assimilare rapidamente le regole e i valori del paese d’arrivo. Nell’arco di una o due generazioni si è consumata una rottura totale, drastica.

Prima ancora che apparissero la jihad e le cellule del terrore. Il cambiamento è accaduto in una parte della comunità islamica proprio mentre il Belgio migliorava in modo inequivocabile, profondo: sì, diventava molto meno razzista del paese in cui ero cresciuto, sempre più aperto verso le culture d’origine, le lingue e i costumi del mondo maghrebino. Al tempo stesso una parte crescente dell’immigrazione islamica cambiava atteggiamento verso di noi.

Un passaggio chiave di quel capovolgimento coincide con la “rivoluzione” di Khomeini in Iran (1978-79), l’instaurazione di una teocrazia sciita che denuncia l’Occidente come una civiltà decadente, immorale, corrotta e peccaminosa. Seguì l’involuzione parallela dell’Arabia saudita dopo l’assalto terroristico del 1979 alla Mecca. Fiumi di petrodollari cominciarono a finanziare predicazioni dell’odio anti-occidentale. Uno dei luoghi di questa crociata fondamentalista fu la grande moschea di Bruxelles finanziata dai sauditi nel cuore della città, a poca distanza dalle istituzioni europee.

Quello che a me rimane impresso, è un “prima” e un “dopo”. Da un certo momento in poi tanti immigrati musulmani decisero che non volevano integrarsi. Lo strappo non ha mai avuto degli equivalenti nelle comunità d’immigrati italiani o portoghesi o greci nell’Europa nordica.

Tanti islamici in quegli anni cominciarono a pensare che la loro è una civiltà superiore, che non hanno nulla da imparare, anzi devono evitare ogni contaminazione con noi. Inoltre questo senso di superiorità si è mescolato ad un sentimento di rancore verso l’Occidente, producendo un mix esplosivo, di cui vediamo tutte le conseguenze.

Questo fenomeno è ben diverso dall’attaccamento alle tradizioni, sempre vivo in tutte le diaspore: italiani o ebrei, irlandesi o polacchi, cinesi o messicani, da sempre gli immigrati cercano di salvaguardare la propria identità. Tutt’altra cosa è sentirsi moralmente superiori e al tempo stesso covare risentimenti, recriminazioni. Questo giacimento di vittimismo esiste in un vasto mondo islamico, anche moderato; è il terreno di coltura per i predicatori della jihad. È il grande problema di cui l’Islam moderato è “portatore sano”, e di fronte al quale chiude gli occhi, con conseguenze drammatiche. (Dove sono le manifestazioni di imam pacifisti e musulmani moderati in solidarietà con i bambini israeliani uccisi? O con i due svedesi innocenti trucidati ieri sera?)

Gli immigrati italiani nella Bruxelles della mia infanzia e adolescenza, anni Sessanta e Settanta, erano dei combattenti. Cercavano dei sindacati per difendere i propri diritti. Si organizzavano nelle sezioni estere del Partito comunista o delle Acli (Associazioni cristiane lavoratori). Volevano migliorare il Belgio e ci sono riusciti. In quanto a Muhammad, la sua generazione di immigrati nordafricani si è integrata molto meglio di quanto si creda. Perché lo voleva.

Il Belgio, scoprii su certe cronache frettolose in quel terribile mese di marzo 2016 (stragi dell’aeroporto Zaventem e del metrò Maelbeek), sarebbe uno “Stato fallito”. Ma davvero? Nel reddito pro capite supera Francia e Inghilterra, Giappone e Italia. Nella longevità media, che è anche un indicatore di qualità delle cure mediche, supera gli Stati Uniti e perfino la Danimarca. Nei rapporti internazionali sulla corruzione è uno dei paesi meno inquinati d’Occidente. Nelle classifiche Ocse-Pisa sulla qualità dell’istruzione è sopra la media dei paesi ricchi, nonostante che gli studenti immigrati siano saliti in un decennio dal 12% al 15%. L’Indice della Felicità delle Nazioni Unite, il più completo su ciò che fa la qualità della vita, piazza questo paese davanti a Inghilterra, Francia e Italia. Questo è il Belgio. “Stato fallito”? Applicata al Belgio la definizione mi ha colpito. La sconfitta di quello Stato balza agli occhi, imperdonabile, nella prevenzione del terrorismo. Molte vite si sarebbero salvate nel 2016 se la polizia e i servizi segreti belgi non fossero stati paurosamente inefficienti. Quella lezione non è bastata viste le assenze di misure preventive di allarme che ieri forse hanno contribuito a facilitare l’assassino dei due svedesi. Meno convincente è lo spettacolo di quanti salgono in cattedra, e poi subiscono débacle in casa propria: gli attentati jihadisti hanno colpito di recente la Francia (di nuovo), in passato Spagna Germania Regno Unito.

A me non interessa difendere i governanti del Belgio, non mi sono mai sentito belga e faccio fatica a ricordare il nome del loro premier. Ma parlare di Stato fallito è pericoloso per le conseguenze che poi si traggono nell’analisi del pericolo incombente sulle democrazie occidentali. Dopo avere incollato l’etichetta dello Stato fallito si passa alla denuncia della “ghettizzazione” degli immigrati di religione islamica, quindi si cominciano a enumerare tutte le colpe dell’Occidente. È un film che abbiamo già visto, a cominciare dagli Stati Uniti: erano passate poche ore dall’attacco alle Torri Gemelle e partì un dibattito su «cos’abbiamo fatto noi per provocarli, come ci siamo tirati addosso questo castigo». È una sindrome segnalata perfino da sopravvissuti dei campi di concentramento: accadde anche a loro di interrogarsi sulle “ragioni” dei nazisti.

Tra le “ragioni” dietro la violenza dei jihadisti, si descrive il quartiere di Molenbeek come un ghetto, appunto. Anche qui le parole hanno un peso. I ghetti nella storia furono quartieri dove venivano confinate comunità come quella ebraica in tempi di discriminazioni e persecuzioni. Si parla di ghetti, per estensione, anche quando vi abitano persone discriminate per le loro condizioni socio-economiche, l’origine etnica, il livello d’istruzione: in questo senso mezzo secolo fa certi quartieri di Bruxelles lo erano davvero. Non è questo che descrive il Belgio di oggi, né la parabola esistenziale dei suoi terroristi.

Uno dei massimi studiosi del jihadismo, il francese Olivier Roy, è stato fra i primi a denunciare l’errore di analisi, ci ha segnalato subito che la maggior parte dei terroristi sono figli della piccola borghesia, benestanti, scivolati nella delinquenza comune prima di trovare nel fanatismo religioso un alibi. Roy ci esorta spesso a fare analogie con le Brigate Rosse. Che non furono il prodotto della disoccupazione giovanile né dello sfruttamento della classe operaia. Ma almeno nei loro documenti le Brigate Rosse volevano spacciarsi come avanguardie rivoluzionarie del proletariato oppresso. Al contrario non c'è nella narrazione islamista il minimo accenno a problemi socio-economici come la disoccupazione. E il Welfare belga è uno dei più generosi, inclusivo verso gli stranieri.

Quasi come il Welfare della Svezia: i due paesi gemellati tragicamente dall’attentato di ieri. Le storie individuali non vanno ignorate, per distinguere tra “ghettizzazione” e processi d’integrazione in atto. Il fratello del terrorista suicida Najim Laachraoui (uno dei terroristi dell’attacco all’aeroporto di Bruxelles-Zaventem nel 2016) era stato ammesso nella squadra nazionale belga di taekwondo; i genitori allertarono le autorità quando il jihadista partì in Siria. Questi sono segni concreti che i familiari del terrorista non si sentivano perseguitati dai belgi. A Molenbeek vivono nordafricani di seconda o terza generazione che sono diventati avvocati, medici, ingegneri, insegnanti, giornalisti, parlamentari. Altro che ghetto. Ci vivono anche dei giovani italiani attirati da Erasmus o dagli stage presso le istituzioni internazionali.

Quando il Belgio era veramente un paese razzista, quando i ghetti c’erano, nessuno dei nostri immigrati imbracciò mai un kalashnikov per farsi giustizia contro i belgi.

Non c’erano in circolazione fra loro ideologie di vendetta e di morte. Quando arrivò in Italia e in Francia il terrorismo rosso, i nostri immigrati diffidarono subito; era roba per giovani borghesi, universitari, figli di papà. Oggi, la jihad nascerebbe dalle ingiustizie sociali? Non certo quella di Abdelhamid Abaaoud, 28 anni, uno dei capi della strage del Bataclan, pianificata in Belgio e perpetrata a Parigi. Cittadino belga di origine marocchina. Suo padre è benestante, ha fatto ottimi affari in Belgio come commerciante. Mise il figlio in una delle migliori scuole private di Bruxelles, un liceo per ricchi. Sfruttamento, emarginazione, disagio sociale? I guru usano queste formulette come dei passe-partout, per pigrizia intellettuale. I jihadisti no. Di quei problemi, loro non parlano mai.

Eppure non mancano i loro proclami ideologici, i documenti di propaganda dello Stato Islamico dilagano “virali” nei social media. Mai che trattino della disoccupazione tra giovani immigrati; mai che denuncino qualche problema sociale nelle banlieues. Sono temi completamente estranei al loro orizzonte ideologico.

Non gliene importa nulla. Quel che odiano dell’Occidente non è lo sfruttamento capitalistico né le diseguaglianze sociali; ciò che denunciano è lo Stato laico che mette tutte le religioni sullo stesso piano; la libertà di espressione; la libertà dei costumi; l’emancipazione femminile; il fatto che le donne possano studiare e lavorare, vestirsi come preferiscono, sposare chi vogliono loro. Ogni tanto appare nei proclami jihadisti un rituale omaggio al popolo palestinese, ma solo perché è coerente con l’antagonismo verso l’Occidente e Israele. Com’è noto, la jihad di Hamas persegue la distruzione dello Stato d’Israele ma non la creazione di uno Stato palestinese.

Il terrorista di ieri non era neppure cresciuto in Belgio, veniva dalla Tunisia, era un richiedente asilo già noto ai servizi di sicurezza per essersi radicalizzato a casa sua. Avrebbe dovuto essere espulso, o arrestato, o quantomeno oggetto di una vigilanza ben più ravvicinata. C’entrano le imperdonabili inefficienze della sicurezza belga, e i garantismi del nostro Stato di diritto; non i presunti “ghetti”.

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