Commentary on Political Economy

Friday 24 November 2023

 

I populismi e le ansie negate di classe media e ceti popolari

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Nel 2024 ci saranno elezioni negli Stati Uniti, in Russia, India, Indonesia e nella Ue. Probabilmente si giocheranno le sorti della democrazia nel mondo

La notizia della morte del populismo era fortemente esagerata. Polonia e Spagna avevano illuso i fautori della società aperta, gli elettori argentini e olandesi ci hanno riportato con i piedi per terra: il populismo è vivo e lotta in mezzo a noi. Javier Milei e Geert Wilders ne sono due autentici campioni, roba che al confronto il generale Vannacci è una mammoletta. Prendiamo il trionfatore dei Paesi Bassi: promette di chiudere completamente le frontiere a ogni richiedente asilo o migrante, di convocare un referendum per uscire dall’Unione europea (l’Olanda è uno dei sei Paesi fondatori), e di vietare moschee e Corano per «de-islamizzare» la sua terra. Molto probabilmente non farà nulla di tutto questo perché al governo non ci andrà nemmeno. Ha stravinto, sì: primo con il 23,7% dei voti e 37 seggi. Ma per fare una maggioranza, di parlamentari ne servono almeno 76; e nessuno tra i rappresentanti del restante 76,3% degli olandesi è disposto ad allearsi con lui. Almeno finché il suo programma è quello. Se ad Amsterdam ci fosse l’elezione diretta del premier, come stiamo progettando di fare a Roma, senza una soglia elettorale da dover superare, allora Wilders avrebbe avuto la maggioranza assoluta dei seggi e stasera stessa sarebbe il capo del governo. Ma nel sistema olandese una minoranza non può diventare maggioranza senza sommarsi ad altre. Servirà così un governo di coalizione, difficile perché si dovranno mettere insieme tre, se non quattro partiti. Ci vorrà tempo, e intanto continua a governare Rutte, il premier della destra liberale il cui partito è il vero sconfitto nelle urne.La democrazia, insomma, ha i suoi freni d’emergenza. Ma non dappertutto. E non per sempre.

L’anno prossimo saranno chiamate alle urne in tutto il mondo 4,2 miliardi di persone, più della metà della popolazione del globo. Non era mai successo prima. Ci saranno elezioni nei Paesi più grandi: Stati Uniti, Russia, India, Indonesia. Si voterà anche nell’Unione europea, seppure non per eleggere un governo federale ma solo un Parlamento. È probabile dunque che nel 2024 si giocheranno le sorti della democrazia nel mondo.

L’America può diventare infatti per il populismo ciò che l’Urss fu per il socialismo: il Paese-guida. Una vittoria di Trump radicalizzerebbe tutti i populisti; anche quelli che, alle prese con il governo, sembrano diventati molto più realisti. Il successo dell’isolazionismo americano rafforzerebbe ovunque i nazionalismi. Si indebolirebbero così tutte le istituzioni e le forme di cooperazione internazionale, con il rischio di esacerbare i pericoli che solo a livello globale possono essere affrontati, e di lasciare che nei due grandi conflitti mondiali, Ucraina e Medio Oriente, prevalga la legge del più forte.

Ci sono dunque ottime ragioni affinché gli avversari dei populisti, i popolari, i socialisti, i democratici, i liberali, si mettano al lavoro per individuare con lucidità i punti di forza di questa grande onda globale di rivolta, per provare a svuotarne i serbatoi di voti.

La prima cosa da fare è smettere di illudersi che si tratti di un fenomeno transitorio, un fuoco di paglia acceso dalle contingenze economiche e sociali. Wilders, per esempio, è in giro dal 2006. Marine Le Pen è leader del Front National dal 2011 e ha già partecipato da protagonista a tre elezioni presidenziali in Francia. Sono leader duraturi e, come si dice oggi, resilienti: nel senso che le difficoltà e le sconfitte di solito li galvanizzano e li rilanciano. Donald Trump sembrava così finito dopo aver perso contro Biden che cercò di capovolgere il risultato elettorale in tutti i modi, anche aizzando la piazza. E invece, rieccolo. A marzo prossimo, con il super-martedì delle primarie, potrebbe diventare il candidato ufficiale dei Repubblicani alla Casa Bianca il giorno dopo l’apertura del processo in cui è accusato di aver cospirato contro la democrazia; e potrebbe essere eletto presidente mentre è ancora imputato di crimini federali, prima cioè che il verdetto sia stato pronunciato.

Se sono così duraturi, vuol dire che hanno toccato un punto infiammato nel cuore degli elettori. E questo punto è, prima di tutto, il rifiuto dei migranti. È il tratto comune a tutte queste forze: fermare o almeno limitare drasticamente l’arrivo di new-comers, di concorrenti nella gara per un benessere economico sempre meno assicurato e, lì dove hanno resistito, per le protezioni sociali del Welfare State. In Olanda al centro della campagna elettorale c’è stata la questione della casa. Il premier uscente Rutte aveva provato a inseguire questa pressione popolare, ma il suo governo è caduto perché non ne è stato capace.

C’è poi un filone di rivolta contro i costi della transizione «verde», che soprattutto in nazioni a forte agricoltura può spingere frange di elettori verso i populisti. Nei Paesi Bassi è certamente avvenuto, non foss’altro perché uno dei contendenti principali alla carica di primo ministro era quel Timmermans che da Commissario europeo è diventato lo spauracchio di tutti quelli che temono di pagare un prezzo troppo alto alla svolta «green» dell’energia e dell’economia. Questo conflitto rischia di diventare presto la prima causa di rivolta contro l’Europa e la sua regolazione.

Bisogna infine evitare di cadere negli stereotipi culturali, e fare di tutt’erbe un fascio. Usiamo ancora l’esempio di Wilders: appartiene sì a una nuova destra, ma non è certo un neofascista o un neonazista. Si dichiara anzi antifascista: «Non ci uniremo mai ai fascisti e ai Mussolini d’Italia», ha detto. La sua islamofobia pretende di essere libertaria, a difesa cioè delle libertà occidentali, e nel suo Pantheon c’è Oriana Fallaci. Gemma insomma da un filone politico ormai radicato in Olanda, che ebbe il suo interprete più originale in Pim Fortuyn, assassinato ventun’anni fa al culmine di una campagna di odio. Gli analisti non escludono che le manifestazioni pro-palestinesi e pro-Hamas, dopo il 7 ottobre, abbiano galvanizzato il voto islamofobico per Wilders.

Bisogna insomma riconoscere che i nemici dei populismi hanno finora fallito, nonostante siano quasi ovunque al governo, a isolare e sconfiggere questa nuova corrente di opinione. Forse proprio perché l’hanno sottovalutata, considerata troppo rozza per non essere effimera, e ad ogni parziale vittoria hanno creduto di aver chiuso la partita. Dovrebbero invece prendere sul serio, nei loro programmi e nelle loro politiche, le ansie e le paure di vasti strati dell’elettorato di classe media e ceti popolari: nel 2024 potrebbero essere loro a decidere le sorti della democrazia nel mondo.

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