Commentary on Political Economy

Saturday 11 November 2023

L’autocensura sull’Islam dell’America vittima delle ideologie

La vignetta rimossa dal Washington Post: l'autocensura sull'Islam dell'America vittima delle ideologie
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Una parte dei giornalisti americani abbandona i principi della deontologia, vuole prendere una posizione dividendo il mondo tra buoni e cattivi

L’America ha la massima tutela della libertà di espressione, il Primo emendamento. La sua protezione si ferma davanti a Hamas? Il Quarto potere esercitò un compito di vigilanza sui leader. Il Washington Postebbe un ruolo nella caduta del presidente Nixon per lo scandalo Watergate. Oggi ilPost batte in ritirata quando si tratta di fustigare il terrorismo islamico?

I dubbi nascono dalla vignetta che il quotidiano — di proprietà di Jeff Bezos (Amazon) — ha deciso di non pubblicare, dove un terrorista di Hamas si è legato al corpo donne e bambini, scudi umani. Si può discutere sulla qualità del disegno, sui tratti del jihadista. Ma questa discussione non è avvenuta.

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La redazione del Post è insorta, soprattutto i giovani, e i vertici hanno fatto marcia indietro, spaventati dalla rivolta interna. Il Post è un giornale progressista, ha fatto battaglie contro Trump. Sul Medio Oriente cerca un delicato equilibrio: difende il diritto all’esistenza di Israele; condanna l’antisemitismo; dà massima visibilità alle vittime civili fra i palestinesi e sostiene il loro diritto ad avere uno Stato. Tutto ciò non basta per una parte della redazione.

Quando Trump era presidente il Postsi lanciò nel «giornalismo resistenziale»: addio alle sfumature. Ora una parte di giornalisti americani abbandona i principi antichi della deontologia, vogliono che i media prendano posizione, che dipingano un mondo diviso tra buoni e cattivi. Israele e l’Occidente sono l’impero del male; gli altri sono vittime. La vicenda della vignetta si situa in questo contesto, le redazioni sono soggette ai diktat della parte militante. È il parallelo con quel che accade nelle università.

L’autocensura sui crimini compiuti in nome dell’Islam (che si estende alla cultura e allo spettacolo) è frutto di uno slittamento percepibile da tempo. Qualche aneddoto «leggero» per ricostruirlo. Per molti anni a Broadway ha fatto il tutto esaurito il musical «The Book of Mormon», satira beffarda dei mormoni, che hanno accettato di esserne lo zimbello. Nessuno ha mai osato proporre a Broadway una satira sul fondamentalismo islamico. Lì il Primo emendamento non vale.

Barack Obama durante la sua ultima campagna elettorale, in una cena per la raccolta di fondi con alcuni miliardari di San Francisco, ebbe parole sprezzanti verso gli elettori della destra: «Questi bianchi pieni di amarezza e risentimento si aggrappano alle loro birre, ai loro fucili, alla loro Bibbia». Non si è autocensurato nel dileggiare dei bianchi cristiani. Mai avrebbe osato pronunciare parole simili su chi «si aggrappa al Corano». È questo il clima da anni, i giovani redattori del Post sono cresciuti in questa America ideologizzata.

A rendere ossessiva la difesa dei musulmani, è intervenuta la saldatura tra gli estremisti afroamericani e i filo-palestinesi. Per il movimento ultrà Black Lives Matter, neri e palestinesi sono vittime della stessa oppressione dell’uomo bianco. L’America rivive gli anni Sessanta, che nel mondo giovanile furono segnati da un’egemonia dell’estremismo. Allora però le redazioni dei giornali rappresentavano l’establishment moderato-conservatore, ancorché illuminato e attento verso la contestazione.

Mezzo secolo dopo il cerchio si è chiuso: l’establishment dei miliardari digitali come Jeff Bezos, Larry Page (Google) e Mark Zuckerberg (Meta-Facebook) sostiene il politicamente corretto; l’accademia è in mano a un corpo docente molto schierato oppure impaurito dalla pressione degli studenti; nelle redazioni sono avvenute purghe di moderati. La censura di una vignetta è troppo normale per fare scandalo. 

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