Commentary on Political Economy

Friday 23 June 2023

 

Stati uniti e India: alleanze (e dubbi) americani

La democrazia più antica, gli Stati Uniti, e la democrazia più grande, l’India: nasce un’alleanza per contrastare la più potente fra le autocrazie, la Cina? È il tema della visita del premier Narendra Modi a Washington, accolto con il massimo onore alla Casa Bianca e al Congresso. L’America vuole attirare l’elefante di Nuova Delhi in una coalizione delle democrazie, lo ha già integrato in una nuova figura geometrica (il Quad o quadrilatero) che include quattro poli di quel dispositivo nell’Asia-Pacifico: India, Giappone e Australia insieme agli Stati Uniti.

Modi governa un gigante che ha superato la Cina per numero di abitanti e il Regno Unito per il Pil. Con una crescita del 6% quest’anno, l’economia indiana punta a futuri sorpassi su Giappone e Germania, a medio termine potrebbe collocarsi nel trio di testa dietro la Cina. È diventata per molte multinazionali la beneficiaria del friend-shoring: la «rilocalizzazione» di attività industriali in Paesi amici, che per l’Amministrazione Biden è la nuova frontiera della globalizzazione, onde ridurre la dipendenza dalla Cina. L’India ha molta strada da fare per essere competitiva con la Repubblica Popolare in ambiti cruciali — infrastrutture, energia, qualità della manodopera operaia, efficienza burocratica — però Modi ha avviato una transizione dallo statalismo dei suoi predecessori verso un’economia più capitalista.

È in politica estera che l’India resiste all’abbraccio americano. Mentre ha un rapporto teso con la Cina, Nuova Delhi è stata a lungo amica dell’Unione sovietica e lo rimane della Russia di Putin. Non condanna l’invasione dell’Ucraina né applica le nostre sanzioni. Mosca è il suo principale fornitore di armi e di energie fossili. Gli accordi per commesse militari siglati a Washington in questi giorni sono significativi ma non tali da spezzare la dipendenza dalle armi russe. L’India è la superpotenza leader del Grande Sud globale (un concetto geopolitico, non geografico). Rifiuta la logica dei blocchi contrapposti. Imputa all’Occidente un manicheismo in politica estera, preferisce vedere il mondo in «cinquanta sfumature di grigio» anziché diviso in buoni e cattivi.

Modi a Washington ha visto in azione quel tipo di manicheismo. Una pattuglia di parlamentari democratici ha disertato il suo discorso al Congresso per protestare contro le violazioni di diritti umani in India. Modi si è difeso: «La democrazia è nel Dna indiano, è nel nostro spirito, scorre nelle nostre vene». I suoi detrattori occidentali sono spesso vicini all’opposizione, quel partito del Congresso della dinastia Nehru-Gandhi che gli elettori hanno bocciato dopo decenni di stagnazione, scandali e corruzione. Le critiche a Modi riguardano il suo attaccamento alla religione induista come fondamento dell’identità nazionale, e il trattamento della minoranza musulmana, oltre un decimo della popolazione. Pochi in Occidente conoscono la complessità dei rapporti tra indù e musulmani segnati da tensioni plurisecolari. O la spada di Damocle rappresentata dal Pakistan, teocrazia islamica dotata di bomba nucleare, che foraggia il terrorismo da decenni, e fece dell’India un laboratorio di maxi-attentati molto prima dell’11 settembre 2001.

Modi non piace a un’intellighenzia indiana progressista che ripudia i suoi modelli etici conservatori. Invece ha solidi consensi nella potente diaspora indiana in America, che fra l’altro esprime i top manager delle maggiori aziende digitali come Microsoft e Google. Gli immigrati indiani in America sono nazionalisti come Modi e apprezzano il capitalismo come lui. Considerano la loro madrepatria come la più grande fra quelle democrazie ultraconservatrici che difendono valori morali di tipo tradizionale.

Biden cerca di mettere la sordina all’ala sinistra del suo partito che gli chiede una politica estera fondata sulla propria agenda di priorità morali. La pretesa di esportare virtù americane nel mondo ha avuto esiti salvifici ai tempi di Franklin Roosevelt, nefasti sotto molti dei suoi successori: in Iraq e in Afghanistan da ultimo. La realpolitik di Biden cerca di mettere assieme le coalizioni più larghe possibili per contenere l’aggressività di Putin e il nuovo espansionismo cinese. Se l’America dovesse dialogare solo con le democrazie perfette, forse l’elenco si restringerebbe a pochi Paesi nordeuropei; i quali non promuovono a pieni voti la democrazia Usa.

La luna di miele con l’India è un esperimento promettente, se condotto con umiltà e pragmatismo. È una Repubblica federale di un miliardo e mezzo di persone, multietnica e multireligiosa, che ha conservato dall’impero britannico alcune istituzioni valide (un Parlamento modello Westminster, una giustizia indipendente, una stampa libera) e l’inglese come lingua nazionale. Ha punte di eccellenza nel software. Ha una forza lavoro giovane in un mondo che invecchia. Negli anni Sessanta, raccogliendo le impressioni da un celebre viaggio, Pier Paolo Pasolini descriveva l’India «senza speranza», condannata alla miseria. Poco dopo la rivoluzione agricola la salvò dalle carestie e ne fece una superpotenza esportatrice di alimenti. Altre rivoluzioni sono seguite fino a fare di Bangalore e Hyderabad le capitali di una Silicon Valley asiatica. Per l’Africa e il Sudamerica il modello indiano di uno sviluppo gestito da governi democratici potrebbe diventare un’alternativa al modello cinese. La prossima rivoluzione può essere l’irruzione dell’India in una nuova geometria della globalizzazione, con effetti paragonabili a ciò che fu l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001.

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