Commentary on Political Economy

Thursday 22 June 2023

ZELENSKIJ: HERO FOR OUR TIME

Il fattore Zeta in Ucraina:
l’omino in maglione militare

Strateghi e diplomatici sono all’opera. Dopo l’ipotesi «coreana» di un armistizio sine die lungo la linea d’attrito fra russi e ucraini, simile al 38° parallelo tra Pyongyang e Seoul, è sul tavolo il «formato Israele»: armi a Kiev a tempo indeterminato, onde garantirne la sicurezza, ma nessun automatismo d’ingaggio per l’Occidente. Troppo poco, forse

Da Vilnius, prossimo vertice della Nato, qualcosa di concreto deve uscire. È stato questo un obiettivo comune messo a fuoco nell’incontro parigino tra Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron. Il presidente francese, rotta l’ambiguità, ricorda ormai che «l’Ucraina difende l’Europa ed è talmente armata che è interesse europeo includerla in un quadro multilaterale». Opinione non molto dissimile da quella di Kissinger che, lasciando orfani numerosi fan del realismo putiniano, ha ribaltato sull’Economist la propria posizione, sostenendo ora che per la sicurezza dell’Europa e persino per Putin «è meglio avere l’Ucraina nella Nato, dove non può prendere decisioni nazionali sulle rivendicazioni territoriali». Traduzione: meglio imbrigliarla nelle maglie atlantiche piuttosto che ritrovarsela in futuro armata, solitaria e revanscista. Grande è la confusione nelle cancellerie. Dagli uffici studi di Washington trapela la consapevolezza di dover rassicurare Zelensky con qualche formula di garanzia.

Si tratterebbe di offrire al presidente ucraino «qualcosa di meno» dell’articolo 5 del Trattato dell’Alleanza, che implica la risposta di tutti i partner di fronte all’attacco contro uno di essi; ma «qualcosa di più» del grottesco memorandum di Budapest in cui americani, britannici e russi (sic) promisero nel 1994 integrità all’Ucraina in cambio della cessione delle sue armi nucleari a Mosca.

È fuori questione, a conflitto aperto, l’adesione di Kiev all’Alleanza Atlantica: Biden ha tracciato una linea rossa. Anche se pare davvero strampalata la teoria secondo la quale, se l’Ucraina fosse già stata nella Nato il giorno dell’invasione, sarebbe scoppiata la Terza guerra mondiale: è assai più ragionevole pensare che il dittatore di Mosca non si sarebbe affatto avventurato ad attaccarla.

In verità il vertice di Vilnius dell’11 e 12 luglio, al di là delle garanzie «tangibili e credibili» da studiare e da offrire a Kiev, sempre secondo Macron, celebrerà soprattutto il funerale del realismo geopolitico e il paradosso del Fattore Zeta: dove l’iniziale non sta più a richiamare l’infame simbolo sui carri dell’invasore ma il nome del comandante in capo della resistenza. Perché, comunque vada, il protagonista del vertice Nato è lui, Volodymyr Zelensky, fino a un anno e mezzo fa figurina irrilevante sul planisfero dove si esercitano gli strateghi.

Nella tragedia dell’Ucraina c’è un dettaglio che dovrebbe far riflettere costoro, e in particolare adepti e vestali del realismo. Perché, sia detto col massimo rispetto per chi scandaglia le interazioni tra Imperi, la vicenda di questo ex attore diventato presidente del suo Paese quasi per caso è il sassolino che fa inceppare le più dotte teorie geopolitiche. In un mondo disegnato per mappe del Risiko, dove all’egemonia di una potenza ne segue un’altra e un’altra ancora, secondo uno schema di prevalenza attingibile dalle lezioni della storia, beh, uno come Zelensky non dovrebbe esistere: nei vecchi film sarebbe la signora delle pulizie che s’affaccia con la ramazza alla riunione dei cervelloni e scombina la loro equazione alla lavagna.

Ora, ripartiamo dall’ipotesi più cara ai realisti e a diversi bravi analisti: costui è un fantoccio, un oscuro servo degli Stati Uniti messo lì dalla Nato per sgomitare ai confini di Santa Madre Russia. Bene. Quando però Putin gli invade il Paese e il suo presunto padrone, Biden, gli offre una via di fuga in aereo all’indomani della tragica alba del 24 febbraio 2022, questo guitto telecomandato dice «no, grazie, non mi serve un passaggio, mi servono armi per resistere». Se sta recitando, è entrato nel copione fino a farne realtà, come un generale Della Rovere ucraino. La cosa appare talmente assurda a tutti (in primis ai russi, che s’erano messi nello zaino dell’invasione le divise da parata, convinti d’essere accolti con fiori e coriandoli) che dapprincipio circola, tra i realisti e i loro giornalisti di complemento, persino l’ipotesi che quell’omino in maglione militare, che chiama il suo popolo alla battaglia per la libertà, stia registrando videomessaggi da chissà quale bunker lontano, con alle spalle una quinta teatrale di Kiev. Quando si scopre, infine, che l’omino tra le macerie è proprio vero, si muove come un capo partigiano nella sua capitale e ha addirittura accanto a sé la giovane moglie mentre una squadra di quattrocento assassini mandati da Putin ha l’incarico di eliminarlo, beh, la storia infine si rovescia. L’Ucraina si compatta dietro di lui. E rompe lo schema di Monaco 1938. Se i cecoslovacchi, anziché subire il «tradimento» di francesi e inglesi sottomettendosi a Hitler, avessero avuto uno Zelensky capace di far saltare il tavolo, il loro destino (e il nostro) sarebbe cambiato? Chissà. Resta l’enigma del personaggio. Che ha tramutato una serie televisiva di successo in un partito politico di altrettanto successo, venti milioni di spettatori in un consenso del 73% alle elezioni del 2019, lo stigma da «creatura» dell’oligarca Kolomoisky nella forza per varare una legge anti-oligarchi. Tra molte zone d’ombra? Certo. La storia ci ha insegnato a diffidare delle santificazioni. Ma ancora oggi, a sedici mesi dall’aggressione dell’Ucraina, si possono leggere suggestive analisi che la attribuiscono «alla ribellione di Mosca contro il disegno americano di cancellare la sua influenza dallo spazio post-sovietico attraverso l’allargamento della Nato».

Sempre e solo potenze e «influenze» in attrito sul planisfero. Sempre e solo entità imperiali in eterno dissidio tra loro come permalose divinità dell’Olimpo. Dimenticando i cittadini e i loro sogni, le loro voci, i loro voti. Il presidente ucraino incarna tutto ciò, la rivincita dei piccoli uomini relegati in una noticina a piè di pagina. Per questo forse, prima ancora d’ogni altro nobile motivo, ci viene istintivo tifare per il Signor Zeta: uno di noi.

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