Commentary on Political Economy

Saturday 3 June 2023

THE THIRTY TYRANTS OF AMERICAN CAPITALISM

 

Elon Musk alla corte di Xi Jinping: cosa c’è dietro?

(Questo testo è stato pubblicato nella newsletter Global, firmata da Federico Rampini: per riceverla ogni sabato basta cliccare qui)

Il regime comunista ha srotolato il tappeto rosso per Elon Musk a Pechino e a Shanghai. Mentre i magnati del capitalismo digitale cinese – tipo Jack Ma di Alibaba – sono caduti in disgrazia o comunque affrontano un governo ostile, per il sudafricano-americano il trattamento della nomenclatura è stato sontuoso.

Musk visitava la Cina in veste di azionista di controllo di Tesla, sia chiaro, non nella sua versione più recente alla testa di Twitter. Il social media è vietato in Cina. Tesla, al contrario, è additata dal regime di Xi Jinping come un modello: la dimostrazione che la Repubblica Popolare è ancora una terra accogliente per le multinazionali americane. Oppure, per girare lo stesso concetto in modo un po’ più brutale, Tesla è la prova vivente che l’America non può fare a meno della Cina, che ogni discorso sul decoupling o divorzio tra le due economie è pura propaganda da guerra fredda, senza alcun fondamento nella realtà.

Il contesto: Cina e Usa in bilico tra disgelo e rottura

La visita di Musk è avvenuta in un contesto delicato. Da una parte ci sono stati segnali che tra Washington e Pechino potrebbe maturare un disgelo, dopo la tensione diplomatica seguita all’incidente del pallone-spia a febbraio. Dopo che lo scandalo del pallone-spia aveva portato a cancellare una visita del segretario di Stato Usa Antony Blinken in Cina, tra le due superpotenze erano cessati i contatti ad alto livello. Nelle ultime settimane c’erano stati segnali di miglioramento: prima un colloquio tra Jake Sullivan (capo del National Security Council, la cabina di regìa strategica della Casa Bianca) e il suo omologo cinese a Vienna. Poi un incontro a Washington tra due delegazioni governative per discutere di commercio estero. Infine la notizia di una visita «segreta» a Pechino da parte del capo della Cia… de-secretata dagli americani per far sapere che le due superpotenze si parlano. In un alternarsi di segnali positivi e negativi, però, bisogna aggiungere il secco rifiuto di Pechino a un incontro tra i due ministri della Difesa per stabilire comunicazioni militari di alto livello; e l’incidente sfiorato nei cieli quando un caccia cinese ha quasi provocato una collisione con un jet militare Usa.

L’ascesa dell’auto elettrica «made in China»

È in questo contesto che Musk è stato accolto a Pechino e Shanghai come un grande amico del regime. Per molti aspetti lo è. La sua decisione di aprire a Shanghai nel 2019 la più grande fabbrica Tesla del mondo, ha dato un contributo decisivo allo sviluppo dell’auto elettrica in Cina. Quella presenza della Tesla ha avuto ripercussioni benefiche a tutti i livelli. Ha contribuito a «educare» gli automobilisti cinesi a un nuovo prodotto. Il fatto che la Tesla sia stata adottata dalla fascia più benestante dei consumatori, ha fornito una sorta di marketing indiretto anche per le marche cinesi che offrono auto elettriche meno care. Al tempo stesso la fabbrica Tesla di Shanghai ha dato ulteriore stimolo alla crescita dell’indotto, la componentistica per le auto elettriche, come dimostra il rapporto che Musk ha stabilito con il gigante locale delle batterie, la Catl. Né va dimenticato che la fabbrica Tesla di Shanghai produce per il mercato interno ma anche per esportare in Europa e in Asia. Sicché è anche per merito di Musk che la Cina ha sorpassato il Giappone come primo esportatore mondiale di autovetture nel primo trimestre di quest’anno. Ormai la Repubblica Popolare viene considerata un peso massimo nell’industria dell’auto elettrica, in grado di conquistare perfino il mercato tedesco, cosa che non era affatto scontata qualche anno fa. Il merito non è certo tutto di Musk: il governo di Pechino ha «innaffiato» il settore di sussidi pubblici, ha contribuito a far crescere la miriade dei produttori locali. Però la presenza di Tesla ha aiutato.

Dalla propaganda di regime un messaggio agli Usa

Musk è stato generoso di elogi per il paese che ospita la sua fabbrica più grande (nello stabilimento di Shanghai si concentra più di metà della produzione mondiale di Tesla). L’imprenditore americano di origini sudafricane ha dichiarato che la produzione di Shanghai è al tempo stesso «la più efficiente» (in termine di costi e produttività) ed anche «la migliore dal punto di vista della qualità». Le autorità locali hanno fatto un uso politico evidente di quelle parole e di quella visita. Il ministro degli Esteri cinese, Qin Gang, ha riferito che Musk si è detto contrario al decoupling tra le economie cinese ed americana. Facendo un paragone tra il mondo dell’automobile e quello della geopolitica, Qin Gang ha aggiunto che le nazioni devono «evitare la guida pericolosa». Tutto ciò ha avuto ampia risonanza sui social media cinesi. Musk è una figura celeberrima tra i cinesi, un’icona che ha preso il posto di Bill Gates e Steve Jobs per le nuove generazioni. L’imprenditore americano si è prestato volentieri all’uso che la propaganda del regime ha fatto della sua visita.

Capitalisti filo-cinesi: i «Trenta Tiranni»

Musk non è il primo dei grandi capitalisti americani a segnalare una volontà di disgelo economico con la Cina. Fra i chief executive Usa che hanno visitato la Repubblica Popolare dopo la fine delle restrizioni sanitarie, ricordo il numero uno della Pfizer Albert Bourla e quello di Apple Tim Cook. Quest’ultimo però ha visitato anche l’India: nei piani di Apple c’è una transizione dalla situazione attuale in cui l’85% degli iPhone e iPad vengono assemblati in Cina, ad un futuro in cui il 40% saranno prodotti in India e Vietnam. È proprio quel tipo di transizione rappresentato da Apple, che preoccupa i dirigenti cinesi e li porta ad «arruolare» Musk come un testimonial d’accellenza sui vantaggi di avere fabbriche in Cina. Il discorso americano sul decoupling spaventa Pechino per ovvie ragioni: la Repubblica Popolare deve il suo formidabile progresso economico all’interazione con l’Occidente, più questo legame s’indebolisce più si addensano ombre sul futuro della crescita cinese. Per la precisione, sia chiaro che non tutte le imprese straniere si vedono srotolare il tappeto rosso come la Tesla. I rapporti dettagliati che vengono pubblicati annualmente dalla Camera di commercio europea e dalla Camera di commercio americana in Cina, tracciano un quadro meno roseo, con fior d’imprese occidentali che lamentano trattamenti discriminatori e un pervasivo nazionalismo economico. D’altronde l’arbitrio è la regola per un regime che non ha doveri di trasparenza né pratica lo Stato di diritto. Ma come dimostra Musk, anche sul fronte americano ci sono resistenze alla prospettiva del «decoupling». Nel mio libro «Fermare Pechino» usai la metafora dei Trenta Tiranni (che risale alla guerra fra Atene e Sparta) per indicare l’esistenza negli Stati Uniti di un’oligarchia capitalistica che è una potente lobby filo-cinese. Di recente il National Security Adviser di Biden, Sullivan, ha operato una rettifica di linguaggio quando ha smesso di usare il termine decoupling e lo ha sostituito con il più limitato «de-risking»: ridurre il rischio di dipendenza dalla Cina non è la stessa cosa che divorziare dalla Cina. Quella evoluzione linguistica è stata interpretata come una concessione agli europei ma senza dubbio lo è anche ai Trenta Tiranni. Sul cui ruolo mi soffermo nel paragrafo successivo.

Musk «l’outsider»... pagato dal Pentagono

Il ruolo di Elon Musk nei rapporti con la Cina potrebbe essere liquidato come una delle tante «fughe in avanti» di un personaggio anomalo, un outsider, uno che è sempre in rotta di collisione con l’establishment americano. Attenzione, però, a non fraintenderlo. A fianco della notizia sulla sua visita a Pechino e Shanghai, io metterei questa: il Pentagono ha accettato di pagare Space X, un’altra società che fa capo a Musk, per i servizi satellitari che fornisce all’Ucraina da quando è iniziata l’aggressione russa. E’ noto quanto la rete satellitare di Space X sia preziosa anche per le forze armate ucraine. Musk aveva offerto questo supporto spontaneamente. Dopo alcuni mesi però aveva cominciato a lamentarsi perché gli costava 20 milioni di dollari al mese. Ora il Pentagono decide che si farà carico di questa spesa (cioè, in altri termini, che il conto lo pagheremo noi contribuenti americani). La notizia serve a mettere in una luce un po’ diversa il personaggio Musk: non è proprio un outsider totale, completamente isolato dall’establishment, uno che ha questo tipo di rapporti con i vertici militari degli Stati Uniti.

La lobby filo-cinese

Torno dunque sulla questione dei Trenta Tiranni, metafora classica per alludere a quell’oligarchia capitalistica americana che si può descrivere come una lobby filo-cinese e che in questa fase “rema contro” il divorzio economico tra le due superpotenze. In una semplificazione estrema della storia recente, si può dire che negli anni Novanta si cementò un consenso neoliberista bipartisan (da George Bush padre, repubblicano, a Bill Clinton, democratico) che saldava l’establishment americano e i poteri forti del capitalismo: quel blocco di potere guidò operazioni di apertura delle frontiere agli scambi e ai movimenti di capitali, la creazione di grandi mercati unici come il Nafta tra Usa-Canada-Messico, infine la cooptazione della Cina nel Wto, l’organizzazione mondiale del commercio. Tra i perdenti di quella fase ci fu la classe operaia americana i cui posti di lavoro furono delocalizzati in Cina e i cui salari furono spremuti; mentre i profitti delle multinazionali prosperavano grazie alle nuove fabbriche cinesi. Poi arrivò la grande crisi del 2008 che fece esplodere la rivolta contro la globalizzazione fino a generare due attacchi politici contro il liberismo: a destra il trumpismo e la sua guerra dei dazi, a sinistra le ideologie altrettanto protezioniste di Bernie Sanders ed Elizabeth Warren. La continuità Trump-Biden è segnalata da un celebre slogan di Jake Sullivan secondo cui l’America deve fare «una politica estera per la middle class» (termine che negli Usa include la classe operaia). E’ contro questo dietrofront protezionista che Musk e i Trenta Tiranni cercano di organizzare una resistenza.

Le oscillazioni nella storia d’America

Questa però, come ho anticipato, è una semplificazione. Il capitalismo americano non è solo il più ricco e dinamico del mondo, è anche un organismo variegato, attraversato da conflitti interni. Non è mai stato tutto quanto liberista. Non è mai stato tutto favorevole all’apertura delle frontiere. La storia è una disciplina affascinante se la si abbraccia nella sua straordinaria complessità, non se viene ridotta a poche formule. Mi viene in aiuto lo studio monumentale di uno storico, per l’appunto. Martin Daunton, inglese, docente di storia economica a Cambridge, ha appena pubblicato “The Economic Government of the World, 1933-2023”. L’opera racchiude fra le altre cose una ricostruzione di vari cicli della politica estera americana, il modo in cui gli Stati Uniti hanno cercato di costruire un ordine economico internazionale. Ne ha fatto una pregevole recensione un altro storico inglese, Adam Tooze, sul Financial Times del 27 maggio. Estraggo poche pillole da queste analisi in profondità. L’America ha sempre avuto atteggiamenti ambivalenti sull’apertura dei mercati e sulla globalizzazione. E’ stata a volte una potenza protezionista, altre volte ha abbracciato il liberismo: sempre influenzata da battaglie interne fra interessi contrastanti, quelli dei suoi capitalisti o quelli dei suoi operai, ma anche gli interessi di alcuni settori economici contro altri. L’America ha avuto un’infanzia protezionista: quando era un’economia emergente praticava alte tasse doganali contro i prodotti stranieri. Ma già allora queste erano una scelta a favore di alcuni settori e contro altri: i dazi proteggevano la nascente industria del Nord (rappresentata dal partito repubblicano) mentre danneggiavano l’agricoltura del Sud grande esportatrice di cotone e tabacco (rappresentata dal partito democratico). Solo dalla metà della presidenza di Franklin Roosevelt si può dire che l’America abbia guidato il mondo intero verso una crescente integrazione. La globalizzazione a egemonia americana è misurata dall’aumento del peso del commercio estero sul Pil.

L’Ue nasce grazie al Piano Marshall

Senza l’impulso di Washington non sarebbe nato il mercato unico europeo: l’Amministrazione Truman pose come ferrea condizione per erogare gli aiuti del Piano Marshall, quella che gli Stati europei beneficiari usassero quei fondi non solo per ricostruire le loro economie devastate dalle seconda guerra mondiale, ma anche per commerciare fra loro e rendere reciprocamente convertibili le loro monete.

Il successo «eccessivo» nelle ricostruzioni giapponese e tedesca, cominciarono però a ravvivare tendenze protezioniste dentro il capitalismo americano. Molte industrie Usa si lamentavano dell’invasione di prodotti giapponesi e tedeschi e chiedevano tutela. La stagione liberista di John Kennedy fu seguita dai deficit commerciali dell’era di Lyndon Johnson, quindi dal ritorno a un nazionalismo economico sotto Richard Nixon (abbandono della convertibilità del dollaro in oro, 1971), Jimmy Carter, e perfino Ronald Reagan. Il democratico Carter e il repubblicano Reagan furono liberisti all’interno – lanciando la deregulation, aumentando la concorrenza – ma con il resto del mondo volevano praticare un “commercio equo”. Reagan impose limiti quantitativi all’importazione di acciaio e auto giapponesi e costrinse Tokyo a rivalutare lo yen. Perfino nel 1999, in piena stagione di revival neoliberista sotto Clinton, le “giornate di Seattle” furono segnate da maxi-manifestazioni di protesta contro un vertice del Wto che segnava una grande avanzata della globalizzazione. Contro l’apertura delle frontiere scesero in piazza operai sindacalizzati e giovani ambientalisti; ma un pezzo d’industria americana tifava per loro. Un capitalista del Texas, Ross Perot, nel 1992 si era candidato come indipendente nella corsa alla Casa Bianca per castigare George Bush padre, colpevole secondo lui di aver preparato le delocalizzazioni verso il Messico e lo sventramento della classe operaia americana.

Verso un «cortile protetto». Ma quale, e quanto?

In questo momento non c’è dubbio che la mente operativa di Biden sul fronte internazionale, Jake Sullivan, stia facendo quel che tanti suoi predecessori avevano fatto in passato: media, costruisce compromessi, cerca punti di equilibrio fra i tanti interessi economici in gioco. Quanto recupero di sovranità industriale è indispensabile per non essere schiavi della Cina e vulnerabili in caso di peggioramento delle tensioni? Quali settori vanno protetti e riportati in patria, quali possono restare aperti e globalizzati? Sullivan ha parlato di costruire “un recinto con barriere molto alte, ma per proteggere un cortile abbastanza piccolo”: un messaggio con cui ha voluto segnalare che non si punta alla rottura totale dei legami con la Cina. Ma sulle dimensioni del cortile di interessi vitali e di settori strategici da isolare, e sull’altezza delle barriere con cui proteggere quel cortile, sono in corso grandi manovre, e negoziati tra gli interessi contrastanti che compongono l’economia degli Stati Uniti. Con un occhio agli interessi delle nazioni alleate, come ai tempi di Truman, Kennedy, cioè nella prima fase della prima guerra fredda.

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