Commentary on Political Economy

Wednesday 10 January 2024

Perché l'Ecuador è il «terzo incendio» per Biden (e favorisce Trump) | Federico Rampini

desc img10 gennaio 2024

Le scene di caos in Ecuador rischiano di pesare più delle crisi in Medio Oriente e in Ucraina nella campagna elettorale americana. Perché hanno a che fare con l'emergenza legata alle droghe e con quella migratoria. E rafforzano l'argomento dell'isolazionismo trumpiano: «Basta fare i gendarmi del mondo, risolviamo i problemi a casa nostra»

Non c’è due senza tre. Chi scrutava l’orizzonte in cerca della «terza crisi internazionale» per Joe Biden, dopo Ucraina e Gaza, forse si era distratto. L’Ecuador contiene un brutale richiamo alla realtà.

Il terzo incendio dell’èra Biden divampava da tempo, ha preceduto gli altri due, non ha atteso né l’invasione di Putin nel febbraio 2022 né la strage di Hamas del 7 ottobre 2023. È un incendio molto più vicino al confine degli Stati Uniti. Un caos molto meno «straniero» rispetto a quello russo-ucraino o mediorientale. E rischia di aumentare ancora le chance di rielezione di un certo Donald Trump.

La crisi del Centramerica – a differenza dei due conflitti «distanti un oceano» – ha implicazioni domestiche che balzano agli occhi. C’è l’emergenza narcos, con il bilancio pesante di morti per overdose tra i cittadini americani. E c’è l’emergenza migratoria, che continua a rovesciare attraverso il confine messicano flussi di stranieri illegali. Di fronte a scene selvagge come quella ecuadoregna – il commando che ha preso d’assalto una tv, lo stato di mobilitazione delle forze armate locali dopo la fuga dalla prigione di un capo-gang, l’insubordinazione permanente della popolazione carceraria – lo spettacolo di una minaccia vicina alle porte di casa entra nelle case degli americani.

Una frase tipica dell’isolazionismo trumpiano – e non solo suo – è questa: «Perché dilatiamo la nostra presenza militare in terre lontane, inviamo aiuti a Kiev e manteniamo truppe in Europa e in Estremo Oriente, se non siamo neppure capaci di garantire la sicurezza del nostro confine meridionale?».

Questo ragionamento acquista un’attualità nuova con le immagini che giungono dall’Ecuador. A Washington uno scarno comunicato del Dipartimento di Stato ha reagito così all’ultima emergenza in Centramerica: «Gli Stati Uniti sostengono il popolo dell’Ecuador e sono pronti a fornire assistenza al suo governo». Poca cosa davvero. Soprattutto se si confronta questo comunicato di poche lettere con i torrenti di dichiarazioni sull’Ucraina prima, su Israele-Gaza poi. O se si paragona il funzionario di medio livello del Dipartimento che ha passato ai giornali quel comunicato, con la diplomazia viaggiante del Segretario di Stato Antony Blinken impegnato a fare la spola tra Israele e diversi paesi del Medio Oriente e d’Europa per mediare sul conflitto palestinese.

Eppure è dal Centramerica che fiumi di clandestini giungono al confineper poi arrivare fino a New York, Boston, Chicago, Los Angeles, le cosiddette «città-santuario» (aperte ai migranti illegali in violazione delle stesse leggi federali), dove le finanze municipali sono allo stremo per finanziare accoglienza e assistenza. Non sono né ucraini né palestinesi la maggior parte dei richiedenti asilo che creano un senso d’insicurezza nell’elettorato Usa. In quanto alla crisi del Fentanyl, la sostanza che oggi più contribuisce all’ecatombe di tossicodipendenti, sono i sempre i narcos del vicino Sud i trafficanti di sostanze (con materie prime made in China).

Ecuador, uomini armati irrompono nello studio televisivo durante la diretta: il video dell’assalto

Video:Ecuador, uomini armati irrompono nello studio televisivo durante la diretta: il video dell’assalto

Il «terzo incendio» di Biden divampa da tempo, eppure Washington non dispiega su questo fronte lo stesso attivismo che dedica a crisi internazionali su teatri ben più lontani. Una ragione sta nei limiti di accettazione dell’aiuto americano. Quando il Dipartimento di Stato parla con cautela di «fornire assistenza al governo dell’Ecuador», dev’essere chiaro che il primo passo va compiuto da questo governo dell’Ecuador per chiederla. Guai se lo Zio Sam apparisse come un prevaricatore che sgomita per intervenire in un paese latinoamericano. C’è il peso della storia, c’è il diffuso sentimento anti-yankee a Sud del Rio Bravo, a limitare lo spazio di manovra della Casa Bianca. La situazione è ben diversa rispetto all’Ucraina – avida di aiuti occidentali, dissanguata e traumatizzata dall’aggressione imperiale di Mosca – o da Israele che per molti decenni ha fatto affidamento sugli aiuti militari da Washington. Eppure per il cittadino americano medio una crisi nell’Ecuador è una minaccia per la sicurezza molto più concreta e palpabile che non i missili di Putin su Kiev o le stragi di Hamas.

Uno dei più acuti osservatori della politica estera americana, Bret Stephens, comincia così il suo ultimo editoriale sul New York Times«L’Amministrazione Biden non riesce a controllare l’immigrazione illegale da suo confine meridionale. È un fiasco. Pechino sta gradualmente dominando il Mare della Cina meridionale, dove transita un quinto del commercio mondiale. Nessuno ferma la sua avanzata. L’Iran arricchisce l’uranio ed è vicino all’arma atomica. Il mondo quasi non se ne accorge. L’Ucraina è a corto di munizioni. Il Congresso Usa è troppo diviso per salvare un alleato. Gli attacchi di Hezbollah contro Israele da Nord e quelli degli Houthi contro le navi internazionali minacciano di scatenare un conflitto mediorientale molto più allargato, coinvolgendo potenzialmente gli Stati Uniti. Sembriamo scivolarci senza freni».

È il quadro di un mondo dove i focolai di conflitto continuano a proliferare a una velocità impressionante («quando c’ero io alla Casa Bianca non scoppiò neanche una guerra», martella Trump). È la rappresentazione di un’epoca post-americana, dove tutta la forza economica tecnologica militare degli Stati Uniti non basta per spegnere gli incendi che altri appiccano a ripetizione. Ma in quel paragrafo di Stephens la crisi numero uno, nell’ordine preciso del suo elenco, è quella vicina a casa. Nell’anno dell’elezione presidenziale Usa, l’Ecuador rischia di rafforzare la convinzione già diffusa in fasce della destra trumpiana e della sinistra pacifista: smettiamola di giocare a fare il gendarme del pianeta, cerchiamo di risolvere i problemi a casa nostra.

10 gennaio 2024, 18:25 - modifica il 10 gennaio 2024 | 18:34

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