Commentary on Political Economy

Thursday 25 January 2024

 

Se l’antisemitismo è la nuova arma contro le democrazie

Se l'antisemitismo è la nuova arma contro le democrazie
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Dagli Stati Uniti alla Cina, passando per Medio Oriente, Europa e Russia. Da dopo il 7 ottobre i focolai contro gli ebrei si sono moltiplicati tra università e fake news

Le autocrazie rilanciano l’antisemitismo nella loro offensiva contro le democrazie occidentali. La propaganda di Hamas e del suo burattinaio, l’Iran, viene rafforzata da Russia e Cina con i loro potenti arsenali sui social media.Dai regimi autoritari torna una vecchia accusa: gli ebrei attraverso la potenza del denaro manovrano la politica e le scelte di governo in America e in Europa. Gli ebrei sono dappertutto, possiedono le banche e i media, comandano a Hollywood, finanziano le università. La loro lobby condiziona le politiche estere di Stati Uniti ed Unione europea. Perciò la nostra democrazia è fasulla, è un’ipocrisia, la sovranità popolare è una beffa, a comandare davvero sono in pochi, sempre gli stessi: «loro».

Non sono temi veramente nuovi, dagli Zar ad Adolf Hitler l’antisemitismo ha una galleria di antenati affollata. Ma questa propaganda ha conosciuto una nuova vita dopo la strage di Hamas del 7 ottobre scorsoHa fatto breccia nella gioventù occidentale, dove l’antisemitismo ritrova una legittimità. Ricostruire le nuove mappe dell’antisemitismo, il suo utilizzo da parte di superpotenze autoritarie, per capire che la sua pericolosità non riguarda solo gli ebrei: questo è il compito che vorrei affrontare stasera a Washington.

Nella Giornata della Memoria l’ambasciatrice italiana negli Stati Uniti, Mariangela Zappia, mi ha proposto d’intervistare presso la nostra sede diplomatica Bret Stephens, editorialista del New York Times. Ebreo americano, Stephens ha vinto un premio Pulitzer quando era al Wall Street Journal; è stato anche direttore del Jerusalem Post. Ha un legame con il nostro paese: sua madre nacque in Italia all’inizio della seconda guerra mondiale, i nonni erano fuggiti dalla Germania nazista. Non essendo ebreo, io ho cercato di prepararmi a questo incontro chiedendomi: in che misura la rinascita dell’antisemitismo mi riguarda, ci riguarda tutti? Alcune risposte le ho avute incontrando a New York Deborah Lipstadt, autorevole storica, tra le più note studiose dell’Olocausto. La Lipstadt divenne celebre per essere stata trascinata in tribunale da un negazionista dell’Olocausto, David Irving. Al termine di quel processo lei fu scagionata dall’accusa di diffamazione; la vicenda è stata raccontata nel film «Denial» del 2016.


La Lipstadt tra i suoi numerosi incarichi ne ha uno al Dipartimento di Stato, come ambasciatrice speciale per contrastare l’antisemitismo nel mondo. Questo incarico non è recente, fu creato per la prima volta da George W. Bush e approvato dal Senato americano con un voto bipartisan: in effetti una prima ondata di recrudescenza dell’antisemitismo in America si verificò subito dopo l’11 settembre 2001. Anche in quel caso una strage di innocenti scatenò immediatamente il riflesso di «colpevolizzare le vittime», con teorie del complotto che ribaltavano la responsabilità su America e Israele. «Weaponization of anti-semitism», è uno dei temi più scottanti che affronto con la Lipstadt: la trasformazione dell’anti-semitismo in un’arma, nell’offensiva per screditare le democrazie liberali. E’ una storia vecchia che si ripete in forme nuove, la lezione è sempre quella: «Quel che comincia dagli ebrei, non si ferma agli ebrei».

Nella storia nessuna democrazia ha tollerato l’anti-semitismo, se non a rischio di perdere la propria anima e preparare la propria fine: la Lipstadt rievoca il precedente della Repubblica di Weimar che crollò spianando la strada al nazismo. La studiosa ci tiene a tracciare la distinzione tra antisemitismo e legittime critiche allo Stato d’Israele: lei stessa – come Joe Biden e il suo segretario di Stato Antony Blinken – è spietata nei suoi giudizi su Benjamin Netanyahu. La stessa società israeliana è lo spettacolo permanente di una dialettica democratica con robuste correnti anti-governative. In particolare la Lipstadt ritiene che Israele stia infliggendo alla popolazione di Gaza sofferenze enormi e immorali, non giustificabili con l’obiettivo di sradicare Hamas. La sua durezza con Israele è in linea con quella dell’Amministrazione che lei rappresenta. Diverso è lo spettacolo dell’antisemitismo.

La Lipstadt ricorda per esempio la terribile telefonata di uno dei terroristi di Hamas che il 7 ottobre si vantava con sua madre: «Ho ucciso dieci ebrei». Non israeliani: ebrei. La vanteria dell’assassino era inesatta, tra le vittime di quella mattanza c’erano anche degli arabi israeliani; ma si riferiva all’obiettivo conclamato con orgoglio, di sterminare un popolo. Quell’obiettivo di sterminio di un popolo figura ufficialmente come una ragion d’essere non solo di milizie come Hamas o Hezbollah o gli Houthi, ma di uno Stato sovrano come l’Iran. Molti altri Stati islamici in Medio Oriente lo condividevano fino in tempi recenti. Eppure ad oggi è lo Stato d’Israele – quello che Hamas vuole cancellare completamente «dal fiume Giordano al Mare Mediterraneo» – ad essere stato trascinato davanti a un tribunale internazionale per rispondere all’accusa di genocidio. Israele sta perdendo o ha già perso la guerra dell’informazione.

Una domanda che ci interpella tutti: cosa è successo fra noi, qui in Occidente, che ha reso banale, o addirittura nobile, l’antisemitismo? La Lipstadt ricorda i fatti che ci dovrebbero turbare. A poche ore dalla strage di civili perpetrata da Hamas – molto prima che scattasse qualsiasi controffensiva delle forze armate israeliane – era già diffusa in ampi strati delle opinioni pubbliche occidentali l’idea che Israele se l’era cercata, che si era «meritato» uno sterminio, proporzionalmente venti volte superiore all’ecatombe di civili americani dell’11 settembre. Nei campus delle università di élite in America era subito riecheggiato lo slogan pro-Hamas: «dal fiume al mare». Anche se molti di quegli studenti pro-Hamas – interrogati nei sondaggi – non sapevano indicare a quale fiume o a quale mare si riferisse, tuttavia erano perfettamente consapevoli del significato.

Israele non ha il diritto di esistere, così si insegna in molte università americane, «perché è uno Stato imperialista e colonizzatore, ha invaso quella terra cacciando la popolazione autoctona». Non conta che gli ebrei siano stati autoctoni anch’essi da migliaia di anni, né che all’origine del progetto sionista molti terreni siano stati da loro riacquistati, né che la creazione dello Stato d’Israele sia stata sancita dalle Nazioni Unite. Sempre nella narrazione dominante in ampi strati della società americana, gli ebrei sono «una razza bianca che opprime un popolo di colore», il che impone l’allineamento pro-Hamas di vari movimenti anti-razzisti. Non importa se in realtà una maggioranza di ebrei israeliani siano «di colore», cioè originari anch’essi di paesi mediorientali, nei quali furono perseguitati o dai quali furono espulsi in precedenti ondate di antisemitismo. La Lipstadt ricorda il silenzio assordante del movimento #MeToo di fronte alle violenze sessuali di Hamas: «Una delle regole di comportamento di #MeToo è che bisogna sempre credere alle accuse di stupro o di molestie sessuali se vengono da una donna. A meno che sia una donna ebrea?». Insieme a #MeToo la Lipstadt ricorda «il silenzio di tante ong che si battono per i diritti umani, i diritti della donna, i diritti delle minoranze».

Sembrano tutti aver abbracciato la narrazione iraniana sull’Asse della Resistenza, che giustifica ogni atrocità in nome dei torti subiti in passato. E’ già nato inoltre un «negazionismo del 7 ottobre», proliferano le teorie del complotto che descrivono quegli orrori come una montatura della propaganda israeliana. La novità su cui la Lipstadt è particolarmente informata, è il ruolo giocato nella diffusione di fake news in Occidente e nella propaganda antisemita da Russia e Cina. La Russia di Putin si riallaccia a un’antica tradizione: furono proprio i pogrom degli Zar ad accelerare la nascita del movimento sionista all’inizio del Novecento. Il caso della Cina è più nuovo e per certi aspetti sorprendente. Per averci vissuto, ho un ricordo preciso dell’ammirazione che i cinesi hanno nutrito a lungo verso gli ebrei. Si sentivano accomunati a loro da una storia antichissima, nonché da alcune similitudini fra la cultura confuciana e le tradizioni ebraiche (il valore dell’istruzione o dell’autorità paterna, fra le altre cose). Studiavano Israele come un modello avanzato di economia hi-tech con alta capacità di ricerca scientifica e d’innovazione. L’antisemitismo non aveva radici profonde in Cina: perfino durante l’occupazione giapponese la comunità ebraica di Shanghai era riuscita a scampare a molte persecuzioni. Dopo la strage del 7 ottobre tutto ciò sembra un ricordo del passato.

Sul social media Weibo sono dilagati i video che paragonano gli ebrei ai nazisti. Diversi media controllati dal regime di Pechino descrivono gli Stati Uniti come una nazione dove la maggior parte della ricchezza e del potere sono in mano a una piccola minoranza Jewish (le statistiche usate sono per lo più false). Una parte di questa svolta si può spiegare con la geopolitica: Xi Jinping ha sacrificato i suoi rapporti con Israele – che erano ottimi fino al 7 ottobre, tanto da impensierire gli americani – per conquistare nuovi consensi nel mondo arabo e nel Grande Sud globale. Non c’è solo questa motivazione. Le fake news di origine cinese che descrivono l’America come una società manovrata, manipolata e dominata da ricchi ebrei, sono funzionali a screditare la democrazia stessa.

Questi messaggi confezionati a Pechino o a Mosca arrivano in America e in Europa su un terreno fertile e ricettivo. Il mondo giovanile è indottrinato alla demonizzazione dell’Occidente e dell’ «uomo bianco» e assimila Israele a questa categoria odiosa. Oggi i campus Usa possono abbracciare una nuova variante del vittimismo: dopo che alcune presidenti di università di élite hanno dovuto dimettersi per avere tollerato aggressioni antisemite, la parola d’ordine è che i ricchi donatori ebrei stanno soffocando la libertà di espressione. Nella comunità Black riemerge un’antica vena antisemita, soprattutto nelle frange radicali convertite all’Islam (una tradizione che risale almeno a Malcom X negli anni Sessanta). Vi si aggiunge il peso crescente – negli Stati Uniti come in Europa – di comunità di immigrati islamici, cresciuti in paesi dove l’antisemitismo è o era dottrina di Stato. La Lipstadt ammonisce che «non si può combattere l’odio a compartimenti stagni, non ci si può dichiarare anti-razzisti e poi tollerare o praticare l’antisemitismo». Secondo lei la nuova vita dell’antisemitismo, la sua weaponization, avviene in un contesto: «E’ guerra aperta contro la nostra civiltà».

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25 gennaio 2024, 18:38 - Aggiornata il 25 gennaio 2024, 18:45

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