Commentary on Political Economy

Monday 18 March 2024

RAMPANT RAMPINI ON THE CONCEPT OF DEMOCRACY

 My favourite Italian political commentator again agrees with me: democratic parliamentary regimes like ours are no answer to the social cohesion of demagogic dictatorships. Democracy is meaningless and helpless if it turns into the anarchy now spreading in the West.


Il problema dell'Occidente è il consenso a Putin

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18 marzo 2024

Perché Putin chiede ai russi di votare? Perché non si comporta come Xi Jinping o Kim Jong Un? Anche il suo regime autoritario si pone il problema del consenso, in crescita grazie alla guerra

Mentre Vladimir Putin celebra la sua quinta elezione con una vittoria ufficialmente stratosferica, a Seul in Corea del Sud si tiene un «vertice internazionale delle democrazie» in tono dimesso.

L’idea del vertice fu lanciata e promossa da Joe Biden nel 2021, poi guadagnò maggiore visibilità e risalto l’anno successivo dopo l’invasione russa in Ucraina, in un periodo in cui la coalizione delle liberaldemocrazie sembrava coesa e combattiva. Oggi la tenuta dell’impero russo sul terreno militare, con l’aggiunta del rito elettorale appena celebrato, rende problematico ogni trionfalismo del “mondo libero”. Cina e Iran, altre due potenze dell’asse antioccidentale, hanno dei regimi che non sembrano avviati verso la porta d’uscita, almeno in apparenza. Ma ci sono differenze tra queste nazioni. Una riguarda proprio il rito elettorale.

Perché Putin chiede ai russi di votare, visto che gli preclude ogni scelta, silenzia o elimina gli oppositori, e quindi potrebbe continuare a esercitare il suo potere dispotico risparmiandosi il ricorso al suffragio universale? Perché non fa come il suo amico e alleato Xi Jinping, il quale si guarda bene dal chiamare i cinesi alle urne, non finge neppure di avere la loro investitura, bensì viene cooptato (ormai già per tre mandati) da un arcano sistema interno al partito comunista?

L’elezione russa è stata violentata in molti modi. La morte di Alexei Navalny ci ha ricordato che fine fanno i veri oppositori del regime. Dunque è corretto sostenere che il verdetto delle urne russe è manipolato. Tuttavia Putin ha sentito il bisogno di organizzare questa messinscena. Questo perché anche i regimi autoritari si pongono quasi sempre il problema del consenso. I confini tra democrazie e autoritarismi non sono delle linee rosse tracciate con il fuoco; ci sono gradazioni e sfumature, tanti passaggi intermedi, sistemi politici “ibridi” che possono mescolare gradi di autoritarismo e di approvazione popolare.

Per prendere delle analogie storiche, si può ricordare che Mussolini, Hitler, Stalin, Mao, tutti godettero di un consenso dei loro popoli almeno in alcune fasi della loro storia. Alcuni arrivarono al potere anche grazie a votazioni di massa (Mussolini, Hitler), altri avevano una legittimazione di tipo rivoluzionario che passava attraverso il ruolo del partito comunista, «avanguardia del proletariato».

Per usare invece delle analogie contemporanee, fra le tante variazioni intermedie tra la democrazia “perfetta” (che non esiste) e l’autoritarismo, possiamo ricordare che il primo marzo si è votato in Iran. Anche lì una vera opposizione è stata repressa e soppressa brutalmente; il malcontento popolare verso gli ayatollah si è manifestato attraverso un astensionismo record (perfino il regime islamista ha riconosciuto che l’affluenza alle urne è stata solo del 40%, il minimo storico dalla rivoluzione khomeinista del 1979). Tuttavia anche la teocrazia sciita di Teheran, come Putin, cerca di convalidare la propria legittimità passando attraverso il suffragio universale. Cosa che non fanno, ad esempio, né la Cina comunista né la Corea del Nord, ma neppure l’Arabia saudita governata da una monarchia assoluta. In Turchia governa un “Sultano” che ha ridotto la libertà di espressione e alcuni diritti dei suoi oppositori, ma catalogare Erdogan come un dittatore sarebbe sbagliato, il consenso di cui gode è reale, le sue elezioni sono state più libere di quelle russe.

Tornando a Putin, purtroppo ci sono indagini abbastanza credibili che gli attribuiscono una popolarità in aumento grazie alla guerra, e nonostante le sofferenze che questa guerra infligge a una parte del popolo russo. Il termine “democrazia” è ambiguo e si presta ad essere equivocato: poiché designa il “governo del popolo”, è sufficiente che il popolo si sia espresso – come ha fatto in Russia – per dare legittimità democratica a un leader?

Padri costituenti degli Stati Uniti d’America – la più antica liberaldemocrazia del mondo – preferivano la parola Repubblica. Per loro non bastava che il governo avesse il consenso dei cittadini attraverso il voto. A questo elemento essenziale della democrazia bisognava aggiungere le caratteristiche di una Repubblica: separazione dei poteri, libertà di espressione, libertà di religione, protezione delle minoranze, insomma tutte quelle garanzie che fanno lo Stato di diritto e che una democrazia popolare potrebbe pure calpestare. “Rule of Law”, il termine inglese che designa lo Stato di diritto, è evocativo: significa che a comandare è la legge, uguale per tutti, anche per i potenti. Questo non si applica certo a Putin, né a tanti altri despoti sia pure investiti da qualche consenso di massa.

Un problema della Russia però è che quel consenso esiste. Non sarà certo dell’88% ma esiste. Osservare con lucidità questo risultato, significa riconoscere che l’Occidente, e in particolare l’Europa, non ha solo un “problema Putin”, ha un vero e proprio “problema russo”. Così come l’Europa soffrì di una “questione tedesca” fino a quando la cultura di quella nazione fu impregnata di un nazionalismo vittimista, rancoroso, aggressivo e paranoico, che aveva alimentato le azioni del Reich prima ancora del nazismo.

C’è poi il problema del putinismo in casa nostra. Da quando ebbe inizio la criminale aggressione contro l’Ucraina abbiamo misurato l’estensione delle simpatie verso Putin, da quelle più esplicite (soprattutto a destra: Trump, Salvini, Orban), a quelle mascherate da pacifismi di sinistra, questi ultimi animati da una sola certezza, che l’Occidente è il vero impero del male.

I putinismi di casa nostra possono avere delle origini diverse. Alcuni a destra vedono nello Zar il difensore di sistemi di valori tradizionali, minacciati dal politicamente corretto o dalla woke culture in Occidente. Altri, a destra e a sinistra, si sono lasciati indottrinare dalla teoria del complotto sul presunto accerchiamento della Russia da parte di una Nato guerrafondaia, sicché tutte le aggressioni di Putin diventano legittima difesa.

Infine c’è un problema sullo sfondo, quello che traspare dal clima mesto e dimesso in cui si tiene il terzo vertice mondiale delle democrazie in Corea del Sud. Anche i popoli che hanno le più antiche e solide tradizioni democratiche, non sono affezionati in modo acritico ed eterno alla democrazia per ragioni filosofiche, valoriali. Come ogni sistema politico anche la democrazia deve conquistarsi e meritarsi il consenso attraverso i risultati che dà. È su questo fronte che il bilancio attuale non esalta, al punto che in molti paesi la disaffezione dei cittadini investe non questo o quel governo, questo o quel partito, ma il sistema stesso.

Nelle tante manifestazioni di una stanchezza democratica l’America eccelle, e le colpe non stanno tutte da una parte. Trump, l’istigatore dell’assalto al Campidoglio, è un caso estremo con la sua regola secondo la quale «o vinco io oppure le elezioni sono truccate». Sul fronte opposto gli viene risposto con un concetto non meno pericoloso: «O vinciamo noi oppure questa non sarà più una democrazia».

Il 17 settembre 1787 a chi gli chiedeva che tipo di sistema politico i Padri costituenti avessero definito per gli Stati Uniti d’America, Benjamin Franklin rispose: «Una Repubblica, se sarete capaci di conservarla». In quella risposta c’era la consapevolezza che nessun sistema politico è perfetto in astratto, e nessuno lo è per sempre, se i cittadini non hanno delle buone ragioni per difenderlo.

18 marzo 2024, 17:30 - modifica il 18 marzo 2024 | 17:30

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