Commentary on Political Economy

Tuesday 26 September 2023

«Il mondo non può perdere l’Ucraina e, forse ancora meno, la può perdere l’Asia», diceva qualche giorno fa un politico giapponese. A Tokyo, il sostegno agli sviluppi della controffensiva di Kiev e le ansie per i destini della guerra crescono. A raccontarlo sono le bandiere azzurre e gialle in alcuni bar e i piccoli biglietti degli stessi colori annodati ai rami degli alberi di qualche tempio. Soprattutto, c’è che il governo di Fumio Kishida appare via via più preoccupato. E gli stessi suoi timori sono condivisi a Seul, a Canberra, a Singapore, in parte a Delhi e, naturalmente, a Taipei.

Il dubbio che si è infiltrato nella conversazione politica dei Paesi democratici dell’Asia riguarda la determinazione dell’Occidente, in particolare degli Stati Uniti, nel sostenere fino in fondo l’obiettivo di Volodymyr Zelensky di sconfiggere Vladimir Putin. La paura è che, per stanchezza delle opinioni pubbliche o per eventi politici, americani ed europei cedano alla «fatica della guerra» e accettino un compromesso sulla testa degli ucraini che alla fine potrebbe risultare come una vittoria o una mezza vittoria per l’aggressore russo. A Tokyo e in altre capitali della regione si è certi che uno sviluppo del genere porterebbe in tempi non lunghi a una prova di forza da parte di Pechino contro Taiwan.

Nella lettura del leader cinese Xi Jinping, si tratterebbe di un cedimento che conferma la sua analisi del declino dell’Occidente, della sua debolezza, della sua incapacità di continuare a difendere l’ordine liberale internazionale: il seguito del rovinoso ritiro americano dall’Afghanistan. Il momento buono per colpire le democrazie anche in Estremo Oriente: in una delle più solide dell’Asia, Taiwan.

I motivi di allarme si moltiplicano. Nei giorni scorsi, la Cina ha intensificato le sue azioni aeree e navali attorno ai cieli e alle acque taiwanesi: l’isola terrà le elezioni presidenziali a metà del prossimo gennaio e Pechino tenta di influenzarne l’esito anche con queste manovre, oltre che con un cocktail di minacce economiche e di promesse di glorioso futuro se il Paese si sottometterà al potere cinese. In estate, Pechino e Mosca hanno tenuto un’esercitazione navale nel Mar del Giappone. L’incontro tra Vladimir Putin e il dittatore della Corea del Nord Kim Jong-un (a sua volta legato a Pechino) ha creato preoccupazioni ovunque, in particolare a Seul, a Tokyo e a Taipei. Gli incontri tra ministri della Repubblica Popolare e il leader del Cremlino (e i suoi militari) sono sempre più frequenti. In generale, anche la sembianza di equidistanza cinese tra Russia e Ucraina è ormai venuta meno e la lettura che se ne dà nelle capitali dell’Estremo Oriente è che una vittoria o una mezza vittoria di Putin aprirebbe nuove opportunità a Pechino per intensificare la propria egemonia nei mari asiatici, per accrescere la pressione su Taiwan e per cambiare gli equilibri nell’intero bacino Indo-Pacifico. La collaborazione militare tra Cina e Russia «pone una grave preoccupazione per la sicurezza del Paese», è scritto in un documento approvato dal governo nipponico.

L’analisi che ci sia un filo diretto tra i destini dell’Ucraina e di Taiwan è insomma sempre più forte tra i governi dei vicini della Cina. E le timidezze che alcuni governi occidentali iniziano a mostrare nel sostegno a Kiev accrescono il loro senso di allarme: oggi, il pericolo di una guerra nelle loro acque è considerato reale. Il primo ministro giapponese Fumio Kishida ha deciso di creare, all’interno della revisione della Strategia di Difesa Nazionale, un comando unitario dei tre rami delle Forze di Autodifesa del Paese. In più, il Giappone sta aumentando gli investimenti in stock di armi in preparazione di un possibile conflitto che parta da un’aggressione a Taiwan e si espanda all’arcipelago nipponico. La preoccupazione sudcoreana è, a sua volta, provata dall’inattesa decisione del presidente Yoon Suk Yeol di partecipare all’incontro di Camp David con Joe Biden e con lo stesso Kishida, nonostante i rapporti da sempre tesi di Seul con Tokyo.

Più che i recenti tentennamenti nell’appoggio a Kiev da parte di alcuni Paesi dell’Est europeo, a preoccupare i governi democratici dell’Asia è la discussione politica che si sta sviluppando negli Stati Uniti, resa acuta dall’avvicinarsi della campagna elettorale per le presidenziali americane del novembre 2024. È ritenuta particolarmente sbagliata l’idea, sostenuta da una parte del partito repubblicano ma non solo, che si debba cessare di sostenere l’Ucraina per dirottare i fondi sul confronto con il reale avversario di Washington, cioè Pechino. A Tokyo come a Taipei prevale la convinzione che sia vero il contrario: abbandonare Kiev significherebbe fare sapere a Xi Jinping che gli Stati Uniti e l’Occidente non difendono gli alleati e i Paesi democratici. E che probabilmente reagirebbero blandamente se la Cina attaccasse in qualche modo Taiwan (che considera una provincia ribelle da riportare sotto il proprio controllo). Pure a Tokyo si spera in una ripresa di colloqui tra Pechino e Washington, anche sulla scia delle difficoltà che sta incontrando l’economia cinese. Al momento, però, prevale la convinzione che Xi continui a puntare sull’amico Putin per avere conferma del declino occidentale. E che perdere l’Ucraina significherebbe perdere Taiwan, minacciare il Giappone e sconvolgere gli equilibri nell’intero Indo-Pacifico.

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