Commentary on Political Economy

Thursday 21 December 2023

 

La crisi del New York Times, un «assaggio» del Trump bis | Oriente-Occidente di Federico Rampini

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21 dicembre 2023

La crisi d’identità del quotidiano più diffuso negli Stati Uniti e gli effetti negativi legati alle elezioni del 2024, se dovesse vincere di nuovo The Donald

L’«anziana signora in grigio» della stampa americana attraversa una crisi esistenziale. Non una difficoltà economica, ma una crisi d’identità e relativa alla sua missione. Il New York Times, il quotidiano più diffuso d’America, l’unico giornale veramente nazionale e la sola testata Usa ad aver vinto finora la sfida digitale (almeno se si guardano numeri di abbonati e conto economico), subisce una rivolta interna e rivelazioni imbarazzanti da una grande firma in esilio. È un assaggio di quel che ci riserva il 2024, con una campagna elettorale al termine della quale Donald Trump potrebbe essere rieletto fra undici mesi. Il ruolo dei media sarà sottoposto a uno stress enorme durante questa campagna elettorale e il più importante quotidiano vi arriva già in uno stato di ebollizione interna.

The Old Gray Lady fu a lungo un appellativo incollato al New York Times, in segno di rispetto e deferenza (erano altri tempi, il giovanilismo non era ancora emerso a stravolgere le gerarchie generazionali). L’immagine evocava rispettabilità, affidabilità, prestigio e autorevolezza. Una reputazione legata a una storia antica, un giornalismo di qualità addestrato alla ricerca di una verità obiettiva, al di sopra delle parti. Nessuno mai si illuse che l’obiettività fosse possibile, ma il semplice fatto di ricercarla, di tendere verso quell’ideale, era indicativo. Non è esagerato dire che il New York Times sia stato per alcune generazioni di noi anche un punto di riferimento mondiale. Tuttora le élite anglofone su altri continenti continuano ad attingervi, talvolta ignare della sua evoluzione più recente, attribuendogli una imparzialità immutata, un identico rigore.

Che The Old Gray Lady abbia tradito la propria storia, oggi lo denunciano diversi suoi giornalisti. Decine di redattori del New York Times hanno deciso di dar vita a un’associazione interna – un «caucus» – in aperto dissenso col sindacato unico dei giornalisti. La maggioranza della redazione, circa 1.500 reporter, è iscritta alla NewsGuild-CWA. Quest’ultima negozia i contratti di lavoro e i trattamenti salariali. Però un pezzo di redazione accusa il sindacato di essersi trasformato in qualcos’altro: un’associazione politica, strumento della fazione più militante dei giornalisti, che sconfina dal proprio mestiere e calpesta la deontologia del quotidiano. Il «caucus dell’indipendenza» è uscito allo scoperto, guarda caso, in circostanze simili a quelle che hanno provocato la crisi delle università di élite (Harvard, MIT, U-Penn).

Anche al Times il casus belli, o meglio la goccia che ha fatto traboccare il vaso, è stato il conflitto in Medio Oriente. Il sindacato unico, sotto pressione da una parte dei suoi iscritti, ha tentato di pubblicare una dichiarazione di condanna degli aiuti Usa a Israele. Sarebbe stata una presa di posizione di fatto favorevole ad Hamas, tanto più che lo stesso sindacato non si è mai sognato di condannare il massacro di civili ebrei il 7 ottobre. Ma questo è stato solo l’ultimo incidente. In precedenza c’era stato un tentativo dello stesso sindacato unico di intervenire in una disputa fra redattori e direzione del Times sulla linea del giornale a proposito dei transgender (una linea decisamente favorevole ai loro diritti e contraria ad ogni forma di discriminazione, ma non abbastanza militante secondo una parte della redazione). I dissenzienti che si sono organizzati nel «caucus dell’indipendenza» ricordano che i loro colleghi più militanti, spesso in prima fila in cortei e manifestazioni di protesta, violano un articolo dello statuto del quotidiano che recita così: «Un dipendente non può prendere parte a manifestazioni o movimenti a sostegno di campagne pubbliche».

La situazione al Times è la punta dell’iceberg. La NewsGuild, l’organizzazione sindacale, rappresenta 26.000 giornalisti americani in trecento media. È quindi verosimile che la politicizzazione del sindacato abbia un effetto ben oltre il grattacielo realizzato da Renzo Piano sull’Ottava Avenue e la 42esima strada di Manhattan, dove la famiglia Sulzberger ha insediato la sede attuale del Times.

Un altro segnale delle tensioni interne lo rivela la scelta audace del settimanale britannico The Economist. Pur avendo un orientamento politico-culturale simile a quello del Times, cioè progressista, il magazine britannico si può concedere spazi di libertà maggiori rispetto alla «woke culture» americana. Ha reclutato in un ruolo da editorialista un celebre transfuga del New York TimesJames Bennet: licenziato proprio in seguito a una rivolta dell’ala più radicale della redazione. Tre anni e mezzo dopo la sua uscita traumatica, Bennet usa la sua nuova tribuna per vuotare il sacco. In un lunghissimo saggio – più vicino alle dimensioni di un libro che a un articolo di settimanale – racconta la metamorfosi dell’«anziana signora in grigio» in un giornale di parte, e l’abbandono di quelle che per molti decenni erano state le regole sacre della sua deontologia. Chi voglia approfondire le circostanze della cacciata di Bennet nel 2020 può leggersi il racconto integrale sull’Economist online: qui il link.

Vi anticipo che non è tenero con i suoi ex-colleghi né con la proprietà, i Suzlberger padre e figlio. Colpevoli secondo lui di aver ceduto alle pressioni dell’ala militante della redazione, lasciando che il Times si accodasse alla tendenza del «giornalismo resistenziale», come venne definito all’epoca della prima presidenza Trump. Poiché seguii molto da vicino gli scontri interni che si conclusero con il licenziamento di Bennet, vi fornisco qualche punto di riferimento, una mia breve e personale sintesi dei fatti che portarono all’espulsione di Bennet.

La primavera-estate del 2020 fu segnata da una parte dalla pandemia, d’altra parte dal feroce assassinio dell’afroamericano George Floyd, barbaramente strangolato in pubblico da un poliziotto bianco razzista. Le reazioni all’uccisione di Floyd furono ben presto egemonizzate dal movimento Black Lives Matter (BLM), ala estremista dell’antirazzismo. Pur godendo di una evidente legittimità, e di un vasto sostegno popolare almeno all’inizio, le proteste degenerarono, anche per la collusione con la criminalità organizzata. Assalti ai negozi, rapine e saccheggi, violenze e distruzioni di edifici pubblici, commissariati di polizia incendiati: lo spettacolo di un’anarchia dilagante spaventò una parte dell’opinione pubblica e in particolare quei ceti popolari residenti nei quartieri poveri più danneggiati dal vandalismo e dalle gang. La polizia, accusata in modo indiscriminato di razzismo, si ritirò e subì tagli di finanziamenti. Fu chiaro che quelle proteste godevano di un’indulgenza speciale da parte delle élite, dei media, delle autorità locali. Gli stessi governatori e sindaci che avevano adottato il pugno duro sulle restrizioni sanitarie anti-Covid (a New York il primo cittadino Bill de Blasio aveva mandato la polizia a disperdere con brutalità dei raduni religiosi di ebrei ortodossi), improvvisamente decisero che il Covid non doveva limitare le proteste di BLM, gli assembramenti in luoghi pubblici diventavano sacrosanti. Le stesse élite che pochi mesi dopo avrebbero – giustamente – condannato l’assalto dei trumpiani al Campidoglio come un gravissimo oltraggio alle istituzioni repubblicane, chiusero gli occhi quando tante sedi dello Stato erano devastate da BLM.

Nell’estate 2020 Trump di fronte al caos propose di usare anche le forze armate per riportare l’ordine nelle città. Al New York Times, a quell’epoca James Bennet dirigeva le pagine dei commenti (che per tradizione hanno un vertice autonomo rispetto alla direzione del quotidiano). Osò ospitare, in mezzo a tantissimi commenti favorevoli alle manifestazioni di BLM, anche un articolo del senatore dell’Arkansas Tom Cotton, un ex militare, il quale spiegava perché l’uso di soldati per ripristinare l’ordine e la legalità sul territorio americano era legittimo, costituzionale, ed aveva dei precedenti nella storia democratica degli Usa. Bennet non condivideva la posizione del senatore Cotton. Ma gli sembrava utile ai lettori del Times essere esposti alle argomentazioni della destra, sia pure in minime dosi, per capirne la logica. Invece la sua scelta scatenò reazioni furibonde dentro la redazione. Molti giornalisti del Times lo attaccarono pubblicamente, imbastendo contro di lui un processo a senso unico sui social, senza difesa e senza appello. Scese in campo il sindacato giornalisti con un’accusa infame: per il solo fatto di aver pubblicato quell’articolo, Bennet metteva in pericolo l’incolumità e la vita dei suoi colleghi afroamericani. Era un’accusa nata dentro la redazione stessa del quotidiano, dove una nuova generazione di reporter Black (molte giovani donne) usò quella prova di forza per stabilire il proprio potere nei confronti della direzione. Quest’ultima, d’intesa con l’editore Sulzberger, cedette e Bennet fu cacciato.

I fatti del 2020 – anche quello un anno elettorale – sono un assaggio di quel che accadrà nel 2024? Il declino del giornalismo americano è al centro di una severa analisi su un magazine di sinistra, The Atlantic. Serio e autorevole, The Atlantic non esita a schierarsi: il suo ultimo numero è interamente dedicato al tema «Se Trump vince», le risposte sono affidate a tutte le sue grandi firme, e non c’è la minima incertezza sulla posizione della testata: Trump non deve vincere, sarebbe una catastrofe per la democrazia.

Proprio perché situato nello stesso numero di The Atlantic, colpisce l’intervento di un suo redattore celebre e autorevole, George Packer, intitolato «Il giornalismo è pronto?» Anche lui è allarmato dalla prospettiva di un Trump 2. Ma pensa che i media progressisti abbracciando la crociata «resistenziale» abbiano rafforzato The Donald. Packer ricorda una verità scomoda: i media che attaccavano quotidianamente Trump durante la sua presidenza, «dipendevano da lui per la propria salute finanziaria». Cita l’allora presidente della rete televisiva Cbs, Leslie Moonves: «Può darsi che non sia un bene per l’America, ma è un gran bene per la Cbs». Packer ricorda che «non appena Trump lasciò la Casa Bianca lettori e telespettatori scomparirono, entro un mese il Washington Post perse un quarto dei visitatori del sito, la Cnn perse il 45% di audience nel prime-time». La perversa complicità è andata avanti. «Dall’esilio a Mar-a-Lago Trump ha continuato a convocare reporter, a concedere interviste per dei libri di cui sapeva benissimo che avrebbero attaccato la sua presidenza e sarebbero diventati dei best-seller. Appena è tornato alla ribalta come candidato presidenziale e imputato nei processi, l’audience dei canali tv di news è risalita».

Packer definisce in termini impietosi l’effetto di Trump sui media americani: «Li ha resi più simili a lui, autoreferenziali, faziosi, presuntuosi nella convinzione di aver ragione. Li ha adescati spingendoli ad abbandonare l’indipendenza in favore dell’attivismo». Nel frattempo continuava a crescere la sfiducia del pubblico verso i media, soprattutto a destra ma non solo. «Seguendo Trump la Cnn, il Times, il PostThe Atlantic e altri hanno aumentato audience. Ma gran parte di questo è avvenuto dentro una bolla di vetro che esclude un pubblico ostile o indifferente. Con il loro moralismo, considerandosi investiti di una missione superiore, questi media hanno ottenuto vantaggi di breve periodo a scapito della loro credibilità nel lungo termine».

La conclusione del giornalista di The Atlantic è un grido di allarme: «Il peggior destino per la stampa durante una seconda presidenza Trump non sarebbe né di finire sotto attacco normativo, né di rischiare la rovina economica. Sarebbe di essere irrilevante».

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