Commentary on Political Economy

Saturday 16 December 2023

 I MET NEGRI IN PARIS IN 1988 AND CORRESPONDED WITH HIM FOR A TIME. GOODBYE, TONI! REST IN PEACE!

Toni Negri, le accuse di terrorismo: dal caso Moro al «cattivo maestro»

L' ex leader di Autonomia Operaia Toni Negri  in una immagine d'archivio che lo riprende al suo arrivo a Fiumicino dopo una lunga latitanza a Parigi.                                                      ANSA/LUCIANO DEL CASTILLO
Toni Negri (Ansa)
di  Giovanni Bianconi
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Tra le accuse mosse al professore padovano c’era anche quella di essere il capo occulto delle Brigate rosse. In una intervista disse: «Stupefatto di essere stato accusato di quella incredibile tragedia»

«Ho guardato la serie di Bellocchio su Moro e continuo a essere stupefatto di essere stato accusato di quella incredibile tragedia», diceva l’estate scorsa Toni Negri nella sua forse ultima intervista, al quotidiano il manifesto. Perché questo accadde: tra le accuse mosse al professore padovano leader prima di Potere operaio e poi di Autonomia operaia, c’era anche quella di essere il capo occulto delle Brigate rosse durante la loro più nota e dirompente azione, il sequestro e l’omicidio del presidente della Democrazia cristiana consumati tra il marzo e il maggio 1978. E in particolare l’autore della telefonata fatta il 30 aprile alla moglie di Moro. Quella in cui il capo delle Br spiegava alla signora Eleonora che solo un intervento «immediato e chiarificatore» del segretario della Dc Zaccagnini avrebbe potuto impedire l’esecuzione della condanna a morte del «prigioniero», altrimenti «accadrà l’inevitabile».

La polemica dopo l'operazione «7 aprile»

Al telefono c’era Mario Moretti, non Negri, ma quando fu arrestato nell’aprile ’79 l’imputazione riguardava anche quella conversazione. Poi cadde, ma aver esteso l’accusa fino al crimine più simbolico e dalle conseguenze politicamente più gravi commesso dal terrorismo di sinistra in Italia ha di certo contribuito alla grande polemica scatenatasi  subito dopo l’operazione padovana soprannominata “7 aprile”; quella in cui i principali leader di Autonomia operaia inseriti a pieno titolo nell’organigramma del terrorismo italiano: Negri, Franco PipernoOreste Scalzone e altri. Ma soprattutto Negri, per via di quell’accusa che gli aveva cucito addosso i panni dello stratega segreto delle Br.

L'uccisione del brigadiere Lombardini

A parte questo capitolo che si chiuse per primo, le accuse rimaste in piedi non erano da meno: insurrezione armata contro i poteri dello Stato e altro, di cui restò – alla fine di faticosi processi – un’associazione sovversiva e il concorso morale per una rapina di autofinanziamento del ‘1974 in cui venne ucciso il brigadiere dei carabinieri Andrea Lombardini. Per una condanna a 12 anni di galera. Scontati prima con la carcerazione preventiva (dal 1979 al 1983, quando fu liberato dop l’elezione alla Camera dei deputati nelle file del partito radicale) e poi fra il 1997 e il 2003, quando decise di rientrare in Italia dall’esilio francese, come lui chiamava quella che tecnicamente era una latitanza protetta – come per molti altri protagonisti di quella stagione – dalla cosiddetta dottrina Mitterrand. Tornò perché pensava di poter condurre «una battaglia sull’amnistia per tutti i compagni degli anni Settanta», che non portò a nulla. E uscì per fine pena.

Accuse e processi

Ma al di là delle accuse formali e dell’andamento dei processi, è certamente esistito un nesso fra l’esperienza post-sessantottina del gruppo di Potere operaio, di cui Negri fu tra i fondatori, e le formazioni armate clandestine. A cominciare proprio dalle Br, in cui entrarono diversi militanti del gruppo guidato da Negri dopo il suo scioglimento. Compresi alcuni che presero materialmente parte al sequestro Moro.
Ci fu un rapporto dialettico, tra organizzazioni e tra persone, sul diverso modo di praticare la violenza rivoluzionaria: da un lato l’idea che dovesse essere espressione di un movimento “di massa”, dall’altro quella che ci volesse un’avanguardia che la trasformasse in strategia. E proprio alcuni scritti comparsi sulla rivista “Potere operaio” e su altri fogli, come “Rosso”, di Negri o comunque da lui approvati, ma in ogni caso attribuiti al professore, furono letti dai sostenitori del “teorema 7 aprile” come un tentativo di coniugare o far procedere di pari passo i due percorsi. Come questo, comparso nell’aprile del 1977: «La verità è che non sono le azioni armate che disorganizzano il movimento, che anzi si rafforza con essi, conquista nuovi terreni… E’, semmai, l’insufficiente organizzazione, il disordine, la mancanza di impronta di partito nelle azioni militari dei compagni a mettere in seria difficoltà il movimento. Da questo non deriva che si devono impugnare le armi ma più semplicemente che bisogna imparare a combattere».

«Cattivi maestri»

Parole che qualcuno ha poi messo in pratica, e che sono valse la definizione di “cattivi maestri” per Negri e gli altri esponenti di maggior rilievo di PotOp. Come Oreste Scalzone, che rifiuta quell’etichetta – «una miserabile trovata questurina», dice da Parigi dove ancora risiede, dopo la fine dell’esilio o latitanza che dir si voglia –, ma non l’idea che di violenza rivoluzionaria si discutesse in quegli anni: «Le teorie e le pratiche circolavano in modo sfrangiato, e non con un taglio binario tra posizioni nettamente differenti alle quali associarsi o dalle quali dissociarsi, all’interno di uno stesso ambiente in cui ognuno ha fatto le proprie scelte. E credo che ciascuno debba parlare per la sua. Poi gli anni sono passati, e la grande vitalità intellettuale di teorico di Negri si è ravvivata attorno al discorso del comunismo spinoziano delle moltitudini, con il quale ha voluto concludere il suo percorso».
A mezzo secolo (o poco meno) dal clima infuocato e turbolento, fatto di pulsioni sovversive e di piombo, di morti feriti e galera, al quale resta indissolubilmente legato il nome di Toni Negri.

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