Commentary on Political Economy

Saturday 15 April 2023

 

È in gioco anche la nostra libertà

Tra pochi giorni torneremo a festeggiare la nostra ritrovata libertà. E mai come il prossimo 25 Aprile dovremo decidere se camminare con la testa girata all’indietro oppure guardando in avanti, a ciò che ci attende non solo come italiani ma come europei. Certo, avere al governo dell’Italia un partito che allunga le proprie radici fin dentro la storia sconfitta dalla Resistenza, potrà riaprire, per chi lo vorrà, contrasti mai del tutto risolti. Ne sono state avvisaglia le polemiche sulle Ardeatine e su via Rasella: tutte legittime, naturalmente, in un contesto di passione politica, e tuttavia tutte fuori tempo, consegnate a pagine chiuse dietro di noi, superate dagli eventi e dalla maturità delle nostre democrazie figlie dei Lumi che hanno archiviato il fascismo. Sono altre, invece, le pagine ancora da scrivere. Più che i fantasmi del battaglione Bozen dovrebbero preoccuparci i mercenari della brigata Wagner. Perché mai come in questo periodo la prevaricazione d’un totalitarismo bussa alle porte della nostra Unione europea, pensata da uomini liberi, quali furono gli estensori della carta di Ventotene persino nella costrizione del confino. Oltre a celebrare chi ha restituito al nostro Paese l’onore distrutto da Mussolini, guardare in avanti significa, dunque, avere il coraggio di domandarci, tutti assieme, da dove possano provenire i veri e futuri pericoli per la libertà e per la democrazia che abbiamo faticosamente riconquistato, non solo in Italia ma nell’intero nostro Continente.

La libertà ha un prezzo e va difesa, ha detto tre settimane fa alla Camera Giorgia Meloni, le cui parole, tradotte, sono diventate virali in Ucraina quale motivo di speranza. Perché, senza volerci girare attorno, ad appena duemila chilometri da Roma, per la prima volta dopo quasi ottant’anni di pax europea, questo è ciò che accade. C’è un dittatore, accusato di crimini di guerra, che ha invaso un Paese libero e tenta di abbatterne il governo democraticamente eletto. E c’è quel governo, che ha chiamato attorno a sé i cittadini e sta resistendo: col nostro aiuto. Che non è un aiuto disinteressato, capiamoci bene.

Giuseppe Conte ha intimato: siate chiari, stiamo dando agli ucraini armi che costano soldi, e quei soldi potrebbero essere invece usati per alleviare la crisi economica che attanaglia tanti italiani. Su questa linea sembra confluire, per ora a mezza bocca, anche una parte dell’opposizione targata Pd. Al netto degli ex Sel o degli ex Articolo 1, pure qualche democratico di lungo corso, magari schermandosi dietro artifici dialettici da «ermeneuta di Conte», svela forti sintonie col leader Cinque Stelle. Nella maggioranza stessa, il controcanto non manca, specie tra i leghisti astutamente blanditi dalla putiniana Marine Le Pen. Siate chiari, dicono in molti: state spendendo i soldi degli italiani per le armi all’Ucraina, e poco importa che, come afferma la premier, mandiamo armi che già abbiamo e dunque non paghiamo, perché poi quelle armi andranno rimpiazzate nei nostri arsenali e questo avrà un costo.

E allora, sì, siamo chiari. Zelensky sta davvero combattendo (anche) una guerra per procura, come da vulgata filo russa, ma non per conto degli americani. Per conto nostro. Combatte anche con le nostre armi? Sì, evitandoci di essere costretti a impugnarle domani. Se lui si fosse arreso o fosse fuggito, come Biden gli suggerì a inizio conflitto, noi avremmo alle porte dell’Unione, al confine con la Polonia, un regime feroce.

Proviamo a guardarlo in volto, quel regime. È fascista? L’ambasciata russa se ne duole al sol sentirlo, e si capisce: la parola è urticante per chi è cresciuto col mito della battaglia di Stalingrado. Ma se hai due ruote, i pedali e un sellino è probabile che tu sia una bicicletta. Se avveleni o incarceri gli oppositori, sottometti la magistratura e l’economia, se ammazzi i giornalisti liberi, se riscrivi la storia rivendicando uno «spazio vitale» che somiglia tanto al Lebensraum hitleriano, se neghi i diritti delle minoranze benedetto da un lugubre patriarca di guerra, se ridisegni le regole per perpetuarti al potere, se strappi i figli ai genitori cercando di «rieducarli» secondo la tua idea di nazione, se bombardi sistematicamente le popolazioni civili, se pratichi la tortura e lo stupro come strumento di sottomissione... beh, se fai tutto questo, è probabile che tu sia un dittatore, a te la scelta dell’aggettivo, fascista, neostalinista o postmoderno, poco cambia per le vittime.

Tutto ciò riguarda il regime, non il popolo, ovviamente. Se bastava Sacharov a mostrarci che non tutti i russi erano Breznev, basta Anna Politkovskaja per assicurarci che non si può identificarli con Putin, checché ne dicano sondaggi sulla cui fedeltà è lecito dubitare perché accompagnati dal terrore che in ogni sondaggista si celi uno sgherro della polizia segreta. Ma Putin è questo. Ai russi starà scoprire la sua mistificazione per quanto censura e propaganda lo permetteranno loro. Persino la retorica della grande guerra contro il nazismo da lui tanto sbandierata in questi mesi di pretesa «denazificazione dell’Ucraina» contiene un baco. Antonella Salomoni lo racconta assai bene per il Mulino nel Protocollo segreto, storia dei patti «aggiuntivi» (oltre, dunque, all’accordo noto e ufficiale di non aggressione) tra Molotov, il ministro degli Esteri di Mosca, e Ribbentrop, il suo omologo tedesco, con tanto di minuta spartizione sulle mappe dei territori da strappare ai polacchi. E con una motivazione addotta da Stalin che mette i brividi per le assonanze con l’oggi: proteggere «i fratelli ucraini e bielorussi», comunità «dello stesso sangue dei russi», «vessati» dai governanti di Varsavia. Per il regime di Putin, proprio come fu per i sovietici, chi, narrando quell’intesa e il suo sottotesto, riporta questa storia con onestà, la «falsifica». Ma la dimensione orwelliana del nuovo despota russo non può eludere all’infinito la forza della realtà, proprio come non poté sfuggirvi l’Urss. Lo confermano, dopo tanti proclami, le ammissioni sul peso delle sanzioni, su cui la gente non può più essere ingannata, e la stessa crudeltà della repressione: un regime che incarcera un papà per il disegno pacifista della figlia tredicenne, alla lunga, non dura. Si tratta di resistere, con Zelensky, per tutti i 25 Aprile che serviranno.

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